Se
per scuola intendiamo non l’istituzione (con la connotazione di metodico
e collettivo che la parola si porta) ma semplicemente, ed essenzialmente, una
modalità, più o meno formale, di trasmissione del sapere, Seneca può fornirci
al riguardo una prospettiva a dir poco allettante.
Una sua famosa osservazione al vetriolo prende di
punta una realtà assurda e al limite dell’intollerabile: Non vitae discimus sed scholae, non impariamo per la vita ma per la
scuola. Frase che suona ancora di straordinaria attualità nell’indicare ciò che
mai andrebbe fatto, la frammentazione e dispersione del sapere in infiniti e
asfittici rivoli informativi che non ampliano l’orizzonte culturale umano ma lo
deprimono e schiacciano con la mole indigesta della sterile erudizione.
Per rendersi conto della portata provocatoria della sententia
senecana basta rifarsi al contesto storico-culturale in cui essa nasce. Da un
lato, il degrado insanabile della oratoria che, col venir meno delle condizioni
di libertà garantite dallo stato repubblicano, smette la sua carica vitale e,
all’ombra della scuola, si riduce a pura declamatoria, nel culto di una parola
vuota più di un guscio vuoto. Dall’altro lato, la persistenza di una filosofia
teorica, verbosa e verbalistica, incapace di misurarsi con la vita, di dare
risposta ai sempiterni e laceranti problemi dell’uomo. Non sono in realtà,
nella visuale di Seneca, le sottigliezze a rendere gli uomini buoni, solo la
ricerca di saggezza è il vero bene. I filosofi sottili sanno offrire
insegnamenti che valgono per la scuola, non certo per la vita. Ed ecco
delinearsi per contrasto ciò che conta veramente. In una lettera indirizzata
all’amico e discepolo Lucilio (6, 4-7), la prima, interessante affermazione a
venirci incontro è il desiderio del maestro di travasare tutto
nell’amico-discepolo (omnia in te cupio
transfundere) al
fine di dar vita a una comunicazione totale, ad un’osmosi spirituale che vinca
il senso di alterità talora persistente anche nei rapporti di più ricca intimità
e risonanza affettiva. Tale desiderio, per conseguenza logica ed emotiva, fa sì
che il continuo studio del maestro avvenga sempre nella gioia perché ha la sua
ragion d’essere nel subordinarsi all’insegnamento: discere insomma per docere,
imparare per insegnare. Giacché, è affermato subito dopo, se dovesse tener
chiuso il suo sapere dentro di sé, non ne trarrebbe nessun giovamento, nessun
piacere. Scavando ancora, si arriva a dire che persino la saggezza,
l’aspirazione massima per un filosofo, è da rigettare se solo non possa essere
condivisa. La delicatezza premurosa e generosa del maestro apparirà in tutta
evidenza là dove è detto che, spedendogli alcuni libri, egli, per agevolare la
ricerca delle cose importanti, metterà dei segni a quei passi che più hanno
destato in lui interesse e ammirazione. Ma – alla fin fine – quel che veramente
favorisce lo scambio non è tanto lo scritto, il discorso scritto, quanto la
presenza viva del discepolo: lungo è il cammino affidato all’astrattezza dei
precetti e degli ammaestramenti, breve ed efficace quello che si realizza nel
concreto degli esempi. Platone e Aristotele impararono certamente di più dal
comportamento di Socrate che non dalle sue parole.
Il vertice educativo è toccato nella frase
successiva: la presenza del discepolo è necessaria perché non solo abbia a
trarre profitto dal maestro, ma perché proprio lui, il maestro, abbia da
imparare dal discepolo. A questo punto si fa chiaro che la dualità maestro –
discepolo è saltata via, con annullamento dei ruoli prefissati e irrigiditi. Un
movimento si attiva di interscambio per cui non si sa più chi sia il maestro
chi sia il discepolo, essendo l’uno e l’altro vitalmente complementari.
In conclusione credo si possa sostenere
tranquillamente che un’autentica trasmissione del sapere non può che
articolarsi in un modo che si potrebbe definire bidirezionale. Un insegnamento
che sia soltanto unidirezionale e unilaterale, quale è quello praticato a
tutt’oggi dall’ordinaria prassi scolastica, è cosa più vecchia e stantia del
magistrale esempio suggeritoci da un uomo di duemila anni fa.
Domenico
Franciò
[Articolo apparso su La Scintilla del 2 novembre 2003]