martedì 26 luglio 2011

La religione del bar

Dal risvolto di copertina del libro di Domenico Franciò, La religione del bar, Intilla editore, Messina 1987 (1a ristampa 2005).

         
Il racconto eponimo, che dà titolo alla raccolta, è la sommessa celebrazione di quello spirito solidale e fraterno che intride di sé luoghi e situazioni spesso refrattari. Questa corrente di umana simpatia determina il tono fondamentale di un raccontare che predilige la linea diacronica (esperienze della fanciullezza e dell’adolescenza saldate a luoghi ed eventi particolari) senza però trascurare la dimensione sincronica che accoglie esperienze adulte legate soprattutto al mondo della scuola. L’una, che in filigrana si lascia interpretare come una sorta di romanzo di formazione, dà vita insieme con l’altra a un tramato di piccoli, importanti accadimenti e di brevi pause riflessive. L’autore – lo sottolineava Salvatore Costanza nella Presentazione – mette tra sé e il narrato un argine, una distanza che gli consente di cautelarsi dal rischio di trappole facilmente nostalgiche.
La misura cui in genere si tengono i racconti è breve, intensa, non immemore della lezione di certi classici.
Dal principio alla fine si avverte, discreta e leggera, una presenza che sembra respirare aria di mito. Messina, sia che resti sullo sfondo sia che s’avanzi sul proscenio, è non tanto municipalità e localismo, buoni solo per cartoline illustrate, quanto luogo d’anima, terra d’elezione.

venerdì 22 luglio 2011

Per figure intraviste

Dal risvolto di copertina del libro di Domenico Franciò, Per figure intraviste, Intilla editore, Messina 2004.
     
Un campionario o, se si vuole, un collage di “figure” le più diverse, svarianti da un campo all’altro dell’attività umana: dallo spettacolo (teatrale, cinematografico, sportivo) alla letteratura, fino all’anonimo del quotidiano. Ciascuna, in prima persona, rievoca momenti e tratti significativi della sua esistenza, alcune si limitano a dire solo di un cruccio o di una spina non del tutto risolti.
L’idea di penetrare nella intimità viva e delicata e talora dolente delle accarezzate figure pare concretarsi in un disegno “preterintenzionale”, rivelativo di qualcos’altro. L’impressione è che dall’ascolto dei singoli “parlanti”, predisposto a coglierne la cifra più segreta e appassionata, venga a delinearsi sull’apparente dispersività delle non poche confessioni un quadro relativamente solidale di sentimenti, di fatti, di pensieri. Di cultura, in una parola.

giovedì 21 luglio 2011

Tra stupore e disincanto


Dal risvolto di copertina del libro di Domenico Franciò, Tra stupore e disincanto, Intilla editore, Messina 2008.

Il movimento pendolare cui allude il titolo del libro avviene tra l’incanto complessivo del vivere, così tenace, continuo, vivo (e si pensi un attimo al toccante monostico menandreo: «Che meraviglia è l’uomo quando è uomo»), e i molti disincanti che tendono a scalfirlo quando non a scardinarlo.
L’autore guarda al passato e al presente col desiderio di consegnare alla scrittura ricordi, pensieri, emozioni e suggestioni nella misura in cui possano essere condivisi o almeno legittimare una qualche adesione.

Un esempio di scuola ‘antica’



Se per scuola intendiamo non l’istituzione (con la connotazione di metodico e collettivo che la parola si porta) ma semplicemente, ed essenzialmente, una modalità, più o meno formale, di trasmissione del sapere, Seneca può fornirci al riguardo una prospettiva a dir poco allettante.

Una sua famosa osservazione al vetriolo prende di punta una realtà assurda e al limite dell’intollerabile: Non vitae discimus sed scholae, non impariamo per la vita ma per la scuola. Frase che suona ancora di straordinaria attualità nell’indicare ciò che mai andrebbe fatto, la frammentazione e dispersione del sapere in infiniti e asfittici rivoli informativi che non ampliano l’orizzonte culturale umano ma lo deprimono e schiacciano con la mole indigesta della sterile erudizione.
Per rendersi conto della portata provocatoria della sententia senecana basta rifarsi al contesto storico-culturale in cui essa nasce. Da un lato, il degrado insanabile della oratoria che, col venir meno delle condizioni di libertà garantite dallo stato repubblicano, smette la sua carica vitale e, all’ombra della scuola, si riduce a pura declamatoria, nel culto di una parola vuota più di un guscio vuoto. Dall’altro lato, la persistenza di una filosofia teorica, verbosa e verbalistica, incapace di misurarsi con la vita, di dare risposta ai sempiterni e laceranti problemi dell’uomo. Non sono in realtà, nella visuale di Seneca, le sottigliezze a rendere gli uomini buoni, solo la ricerca di saggezza è il vero bene. I filosofi sottili sanno offrire insegnamenti che valgono per la scuola, non certo per la vita. Ed ecco delinearsi per contrasto ciò che conta veramente. In una lettera indirizzata all’amico e discepolo Lucilio (6, 4-7), la prima, interessante affermazione a venirci incontro è il desiderio del maestro di travasare tutto nell’amico-discepolo (omnia in te cupio transfundere) al fine di dar vita a una comunicazione totale, ad un’osmosi spirituale che vinca il senso di alterità talora persistente anche nei rapporti di più ricca intimità e risonanza affettiva. Tale desiderio, per conseguenza logica ed emotiva, fa sì che il continuo studio del maestro avvenga sempre nella gioia perché ha la sua ragion d’essere nel subordinarsi all’insegnamento: discere insomma per docere, imparare per insegnare. Giacché, è affermato subito dopo, se dovesse tener chiuso il suo sapere dentro di sé, non ne trarrebbe nessun giovamento, nessun piacere. Scavando ancora, si arriva a dire che persino la saggezza, l’aspirazione massima per un filosofo, è da rigettare se solo non possa essere condivisa. La delicatezza premurosa e generosa del maestro apparirà in tutta evidenza là dove è detto che, spedendogli alcuni libri, egli, per agevolare la ricerca delle cose importanti, metterà dei segni a quei passi che più hanno destato in lui interesse e ammirazione. Ma – alla fin fine – quel che veramente favorisce lo scambio non è tanto lo scritto, il discorso scritto, quanto la presenza viva del discepolo: lungo è il cammino affidato all’astrattezza dei precetti e degli ammaestramenti, breve ed efficace quello che si realizza nel concreto degli esempi. Platone e Aristotele impararono certamente di più dal comportamento di Socrate che non dalle sue parole.
Il vertice educativo è toccato nella frase successiva: la presenza del discepolo è necessaria perché non solo abbia a trarre profitto dal maestro, ma perché proprio lui, il maestro, abbia da imparare dal discepolo. A questo punto si fa chiaro che la dualità maestro – discepolo è saltata via, con annullamento dei ruoli prefissati e irrigiditi. Un movimento si attiva di interscambio per cui non si sa più chi sia il maestro chi sia il discepolo, essendo l’uno e l’altro vitalmente complementari.
In conclusione credo si possa sostenere tranquillamente che un’autentica trasmissione del sapere non può che articolarsi in un modo che si potrebbe definire bidirezionale. Un insegnamento che sia soltanto unidirezionale e unilaterale, quale è quello praticato a tutt’oggi dall’ordinaria prassi scolastica, è cosa più vecchia e stantia del magistrale esempio suggeritoci da un uomo di duemila anni fa.
Domenico Franciò
[Articolo apparso su La Scintilla del 2 novembre 2003]