lunedì 15 agosto 2011

Recensione a “C’era una volta il mito” di Maurizio Bettini, Sellerio 2007, € 12,00




C’era una volta… Non un re e una regina, e neppure il West di Sergio Leone, ma… il mito. E così già sai dal titolo che il libro tra le tue mani non è il solito (serioso) manuale di mitologia, quello che, scientifico o divulgativo che sia, ti procura, anche per pretesa di completezza, un certo effetto soporifero.
Che libro è allora? Un libro che affronta, con la competenza agguerrita del filologo classico e il piacere contagioso del narratore, il mare magnum della mitologia creata dalla inesauribile fantasia degli antichi greci, collettiva o individuale, e tenta di mettere un po’ d’ordine ricercandovi vie praticabili. Altrimenti detto: non l’erudizione che sistema e congela in un arido lemmario, ma la scrittura, vivace e brillante, di chi, tra le maglie di una intrecciatissima rete, persegue un disegno, una sua direzione di marcia. Sta a lui raccontare e spiegare, ricorrendo, quando è necessario, a rimandi incrociati, a collegamenti trasversali, a riprese e ripetizioni, fatti e personaggi che hanno sempre un significato più profondo di quello che appare in superficie. Ed ecco allora che i racconti più vari e meravigliosi, come quelli di fondazione, connessi all’origine di certi rituali o costumanze, o quelli legati alla misoginia (Pandora e il suo vaso), alla fatica vana (Sisifo), allo «scambio delle vite» (Alcesti che si sacrifica per il marito), e altri ancora, sono disposti in un quadro narrativo che rimanda costantemente a colui che, dietro le quinte, cura il montaggio e dispone le cose e i colori. Tale presenza si avverte da certi ammiccamenti o allusioni, o in certe increspature ironiche e divertite, o in altre di tonalità differenti, anche risentite. Ci si accorge così che la distanza tra l’atemporalità mitica e il nostro tempo viene accorciata, talvolta quasi azzerata. Al lettore è garantito il piacere di respirare una penetrante aura ironica, sottile quanto bonaria, che lo illude di una qualche complicità con l’autore. Per questo abbiamo spesso del fatto nudo e crudo la ‘ricaduta’ sull’oggi, il significato per noi. Stiamo pensando, per esempio, a un ammiccare malizioso a certa (insensata) prassi politica attuale: laddove si coglie l’analogia tra l’abitudine degli antichi a consultare gli oracoli e la smania odierna di consultare… i sondaggi.
Se la funzione primaria del mito pare sia quella di delectare e docere, divertire e ammaestrare, nondimeno è più probabile per l’autore che essa consista soprattutto nel piacere del puro raccontare e farsi raccontare. Ma – ci si può chiedere – qual è il rapporto del mito con la letteratura e, in genere, con l’arte? Al riguardo è offerto un esempio emblematico: il racconto di Orfeo e Euridice. Una domanda, cruciale, s’impone: perché Orfeo si volta, contro il divieto, a guardare Euridice, impedendole così di tornare a vita e ricacciandola definitivamente nell’abisso nero della morte? Due risposte sono date. Quella di Cesare Pavese, in linea col temperamento severo e cupo dello scrittore, svela una finissima ragione psicologica: Orfeo si volterebbe per risparmiare all’amata, se riassunta alla vita, lo strazio di doverla riperdere. Un impulso d’amore, d’amore vero. La risposta di Bufalino corre invece sul filo del paradosso, beffarda e cinica come certe battute. Se Orfeo non si fosse voltato, addio Gluck, addio «Che farò senza Euridice…»: quasi che il racconto mitico avesse come sua unica giustificazione proprio quella di rendere possibile, a distanza di secoli, la celebre opera del compositore tedesco.
Il racconto – già si è accennato – non è lineare: per avanzare ha bisogno talora di retrocedere e di prendersi delle pause, parentetiche o digressive. E se l’intelaiatura mitologica è sostanzialmente greca, affascinanti confronti e paralleli vengono scoperti in altre saghe, in altre epiche.
La lieve ironia, costante di fondo di questo narrare, in qualche caso cede il passo al sarcasmo e persino all’indignazione, sferzante e sprezzante. Come quando si parla di mètis, che vuol dire astuzia, intelligenza astuta. Ma – viene precisato con uno scatto perentorio –: «Non quella da quattro soldi del truffatore o dell’imbroglione, ma l’intelligenza che permette di risolvere le situazioni con un guizzo della mente».
Domenico Franciò