sabato 5 novembre 2011

Recensione a “Un cattolico a modo suo” di Pietro Scoppola, Morcelliana 2008


Non si può, credo, non sentirsi attratti da persone che, credenti o non credenti, abbiano spessore di umanità; e dunque non abdichino per nessuna ragione all’esercizio della riflessione personale: a costo di affrontare i rischi inevitabilmente connessi a temi di grande delicatezza e complessità, spirituale e morale. Per non altro fine che non sia quello, nobilissimo, di salvaguardare con somma cura e senza risparmio di forze, quel bene prezioso che è la pace con sé stessi, l’accordo con la propria coscienza. D’altra parte l’acquisizione del ‘primato della coscienza’ – di questo si sta parlando – non può certo dirsi recentissima. Ad esempio, un’affermazione del Concilio Lateranense IV del 1215 suonava così: Quidquid fit contra conscientiam aedificat ad gehennam, che potrebbe rendersi: Qualsiasi cosa fai contro coscienza ti porta, mattone su mattone, all’inferno.
Ciò premesso, mi occuperò di un libro e di una persona che proprio per le qualità sopra accennate mi hanno affascinato e commosso. Già la dice piuttosto lunga il titolo, che nasce da un giudizio pronunciato da papa Paolo VI. Che su Scoppola, attaccato con durezza dall’Osservatore Romano per un presunto “pluralismo senza criterio”, ebbe ad affermare: «Scoppola è un cattolico un po’ a modo suo, ma è bene che rimanga» (ossia – spieghiamo al lettore – non si dimetta dal convegno cui era stato invitato). E l’autore chiosa: «un “cattolico a modo suo”, detto dal Papa, era il massimo che potessi desiderare».
È un libro – nota finemente Giuseppe Tognon in premessa – «fuori da ogni schema, ricco di suggestioni, amaro e fiducioso, autobiografico e insieme universale», pensato e scritto nell’ultimo scorcio della vita «in un clima di grande intensità emotiva e di profondo raccoglimento». Avrebbe potuto l’autore scrivere in astratto sulla vita, la morte, la fede, la ragione e invece «parla di sé, in un gesto di colta umiltà e di confidenza con il lettore».
I temi sono molteplici ma sostanzialmente rientrano nella letteratura civile (memorabile la definizione della politica «come valutazione razionale del possibile e come sofferenza per l’impossibile») e soprattutto nella letteratura religiosa.
L’immagine complessiva che di Pietro Scoppola viene fuori dalla lettura è quella di un uomo di rara onestà, di rara limpidezza morale e intellettuale. Che dice di sé, dei suoi, dei maestri con sincerità estrema: l’autoritarismo del padre, uomo buono peraltro; l’emotività ansiogena della madre, fonte delle insicurezze e timidezze adolescenziali; la formazione rigorosa, quasi granitica, ricevuta alla scuola dei gesuiti, e insieme piuttosto chiusa, scolastica e dogmatica; la confessione dei propri debiti culturali (su tutti H. I. Marrou, col suo storicismo umanistico aperto ai valori della trascendenza); la fede, considerata non, o non solo, come dottrina bensì fulcro e motore dell’esistenza: suscettibile sempre di nuovi arricchimenti, e instancabilmente sollecitata da dubbi e istanze problematiche che si incarnano alla fine nello stesso modo di credere.
La questione della fede è il cuore del libro. Sono ridiscussi molti dei punti nevralgici che alla luce della razionalità umana – di cui peraltro non sono ignorati i limiti – riesce difficile accettare: citiamo per tutti l’idea dell’inferno che «anche ridotta alla nozione metafisica della privazione di Dio rimane intensamente tragica», e non solo per l’uomo. Scoppola era perfettamente consapevole di aver fatto un cammino «nel senso del concilio e talvolta forse anche oltre il concilio».
L’ultimo capitolo è quello che più tocca certe corde dell’anima. L’autore parla, continuando ad assecondare un’esigenza radicale di sincerità, della malattia che lo ha raggiunto. Senonché, pur nella straziante situazione, quando, stando “dentro al tritacarne, sotto torchio”, sarebbe impensabile o quantomeno illusorio l’esercizio della lucidità e della capacità di distinzione, egli non intende abdicare alla sua dignità di persona. Intuisce che la sofferenza bruta può, in qualche modo e in qualche misura, essere trasformata in dolore umanizzante. Per questo non starà a chiedersi: “perché a me”, ma cercherà di disporsi ad accogliere il «Sia fatta la tua volontà»: nella persuasione che è «nel modo di rispondere all’evento» che si fa o non si fa, in definitiva, la volontà di Dio. Grato al Signore dei momenti di intensa intimità spirituale, quasi inimmaginabili, vissuti coi propri cari, continuerà a sforzarsi, con umiltà, ad essere e sentirsi «in sintonia con questo grande e misterioso disegno di amore che ci coinvolge tutti». Sperando così di rimanere, fino alla fine, nella “corrente viva della fede”.
Domenico Franciò