sabato 18 maggio 2013

Recensione a “Lettera a un insegnante” di Vittorino Andreoli, Rizzoli 2006





Il destinatario di questa “lettera” incalzante e agguerrita è l’insegnante della scuola media, inferiore e superiore: la scuola dell’adolescenza. E l’adolescenza, età difficoltosa quant’altre mai, è sostanzialmente – lo conferma l’etimo – crescita, vale a dire mutamento per salti e metamorfosi. E dunque compito primario della scuola è, in un delicato passaggio che induce spaesamento e ricerca spasmodica di identità, insegnare a vivere. È questo – possiamo affermare – il leitmotiv del libro, ciò che detta all’autore accenti di rara intensità. Senza questo obiettivo la scuola è solo un’istituzione assurda e crudele che produce effetti dannosi, e talora perfino catastrofici. Una scuola immotivata che non susciti interessi conoscitivi e non accenda emozioni, e sia anzi iniqua e ingiusta, piatta e noiosa, cinica e beffarda, può anche… uccidere. E non solo per metafora. La “dispersione scolastica” è una strage vera e propria: tante crocette dovrebbero essere appese alle pareti scolastiche ad attestare l’esito infausto di un mandato educativo tradito. È all’emarginazione che si deve poi quella insopportabile infelicità di fondo che induce adolescenti fragili e a fortissimo disagio esistenziale a togliere… il disturbo: o con un suicidio mascherato (vedi incidenti stradali) o con un atto deliberatamente autodistruttivo.
Ora, perché la scuola sia umana ed educhi all’impegno serio e costruttivo è necessario sostituire alla egemonia dell’io, imperante nella società della lotta e dell’esclusione, il gruppo, la classe, il “noi”. Occorre perciò recidere in radice lo spirito competitivo impiantando e alimentando il sentimento della solidarietà, il piacere della ricerca comune, un po’ come avviene, ad esempio, in una squadra di calcio o in una orchestra. Spariscano perciò i voti, scompaia l’odiosa figura del cosiddetto primo della classe, e si favorisca una collaborazione capace di promuovere senso di appartenenza e partecipazione ad un progetto condiviso. Ad evitare poi un, come si dice, appiattimento o livellamento in basso ci penserà l’insegnante: che traendo il meglio da ciascuno, costruirà – estirpata la malerba dei favoritismi, delle frustrazioni, del dolore – una comunità serena, gioiosa, giusta. I talenti degli allievi verranno messi a servizio, e a profitto, del gruppo-classe. Tutti andranno incoraggiati, nessuno verrà mortificato, di ognuno cercando di salvaguardare il bene prezioso dell’autostima personale. La scuola sarà così messa in grado di opporre un modello di vita alternativo alla società dell’attimo, del dissennato e offensivo spreco di risorse, cose e persone.
Ma – ci si chiede – come deve essere in concreto l’insegnante cui spetterà di realizzare, operando da catalizzatore, questa inversione di rotta? Dopo aver delineato una ricca tipologia negativa (il cattivo, il minimalista, l’ingiusto, il narciso, il tipo da palcoscenico, il samaritano) si arriva ad una conclusione apparentemente contraddittoria. L’insegnante ideale è l’insegnante “imperfetto”. Sebbene abbia delle certezze profonde e un chiaro orientamento interiore egli ha insieme coscienza netta dei suoi limiti, e per questo non è affatto impermeabile al dubbio. Quest’ultimo però, non che difetto, è un pregio decisivo che lo preserva dalla tabe del fanatismo tenendolo sulla corda della continua ricerca, dell’apprendimento costante. Un buon insegnante – afferma con sicurezza l’autore – è un “ottimo studente” che offre ai suoi allievi un esempio trainante di impegno e dedizione.
Ma – domanda cruciale – si può davvero insegnare a vivere? Si può. Qualora ci si renda conto, e mai si dimentichi, che l’affettività a scuola deve avere un posto, un’importanza, un riguardo almeno pari all’intelligenza. Solo così sarà possibile attingere un vero sapere, che “non è un orpello, una decorazione, ma uno strumento per vivere”.
La scuola del passato aveva una duplice funzione: informativa e formativa. La funzione informativa è caduta ormai, quasi per intero, sotto il dominio del progresso tecnologico. Ma la funzione formativa, quella che per Andreoli coincide tout court con l’“insegnare a vivere”, continuerà ad essere prerogativa della scuola. Ed è funzione, in un futuro più o meno prossimo, sempre più importante, anzi decisiva: a patto, beninteso, che essa, la scuola, sia attrezzata dell’indispensabile corredo critico e sappia come sollecitare le forze creative. Indispensabile è però al riguardo che all’insegnante venga assicurata piena libertà di movimento in fatto di programmazione e di esecuzione: impedendo ai programmi ministeriali o regionali o d’istituto che siano di costruire intorno a lui gabbie ossessive di astratte, prolisse precettistiche che non tengono in considerazione alcuna l’unica realtà che conta, quella in cui l’insegnante si trova in concreto ad operare.
Domenico Franciò
[Articolo apparso su La Scintilla del 4 maggio 2008]