Nella forza dell’imperativo morale
non ci sono, alla fine, dei motivi – perché a quel punto dovremmo ancora
spiegare perché valgono, e così all’infinito – ma una specie di “fascinazione”,
qualcosa di molto simile all’innamoramento.
Gianni
Vattimo
Carissimo,
sto leggendo quanto il
cardinale Dionigi Tettamanzi, che da arcivescovo ha retto l’arcidiocesi di
Milano, ha scritto sul tuo conto in base alle luminose, precise, concrete, mai
esaurienti omelie, da Giovanbattista Montini, divenuto nel tempo pontefice – e che
avrebbe, anche lui, avuto accesso alla gloria degli altari – pronunciate,
facendosene, in certo senso, (autorevole) biografo, e, verrebbe voglia di
aggiungere a scanso di equivoci, non
agiografo, se per agiografia si intende una biografia mitizzata, al limite
del leggendario, dove tutto quanto si dice sia a dimensione unica, monologica e
del tutto conforme a quel cliché che vuole la santità magnificata a tutto
tondo, e con tratto manicheo: col bel risultato che il lettore avvertito,
addestrato a pensare con la propria testa e poco, anzi per nulla propenso a
portare il suo cervello all’ammasso, non giungerebbe alla fine dello scritto
senza aver naufragato nel montante mare magnum della noia.
Montini, nelle sue omelie,
ha messo in luce due aspetti, non opposti ma integrantisi a vicenda, ognuno dei
quali esige giusto approfondimento per portare alla luce quanto di innovativo,
di inedito, di originale, e dunque di personale, si lega alle modalità con cui
hai vissuto la vita, e, in particolare, comunicato a fatti e non con parole, e
cioè col linguaggio trasparente e convincente dell’exemplum, quale fosse il tuo
atteggiamento nei confronti della propagazione del verbo di Cristo.
Non era da te la misura
mediocre, quella della virtù che si barcamena tra i contrari, appostandosi infine
nella via di mezzo. Non eri, in una parola, per l’oraziana aurea mediocritas. Eri uomo
di eccessi, di prepotente e indomabile vitalismo, che ti faceva avanzare lungo
la strada scelta senza dubbi, tentennamenti, perplessità.
Il tuo non era il
comportamento bonario, indulgente, tollerante con cui un san Filippo Neri
addolciva i tratti duri, spigolosi, difficoltosi della sequela Christi, anche
se anche lui non rifuggiva certo dall’ascesi penitenziale. Tutti ricordiamo il
suo invito a far buon viso a qualche costatella con correlativo auspicio “e che
buon pro vi faccia”.
Eri severo, austero,
intransigente con la tua gente, ma, innanzitutto, con te stesso.
Dalla tua concezione
cristiana della vita bandivi ogni forma che minimamente sapesse di edonismo, di
abbandono ai piaceri, di qualunque genere fossero, a qualunque raggiungimento
aspirassero. Non eri propriamente quel che si definirebbe lassista o permissivista.
La simpatia non faceva
parte dei tuoi tratti salienti.
Non era nelle tue corde
promuovere una santità da conseguire individualmente, ma una santità che
coinvolgesse il maggior numero di persone: quasi si direbbe una santità di
massa, se la qualificazione non suonasse alle nostre orecchie con l’allure
inconfondibile dello sprezzo e della condanna. Ideale altissimo il tuo, per la
cui realizzazione hai speso il più e il meglio delle tue energie fino a
morirne. Ad una età che oggi sarebbe considerata scandalosamente prematura.
Certo, qualsiasi
vicenda umana, per capirla a fondo, va contestualizzata, va, cioè, inserita in
un contesto sociale, comunitario, in grado, sia pure parzialmente, di renderla
comprensibile, decifrabile.
La domanda chiave,
cruciale, alla quale non intendiamo, non vogliamo, né possiamo sottrarci di
rispondere, è la seguente: è attuale la tua esperienza? Ha ancora qualcosa da
dire, da insegnare al cristiano odierno, agli uomini tout court? Oppure, au contraire, essa rimane confinata a
una determinata temperie storica, e quindi irripetibile, intrasferibile, e, in
definitiva, per noi lettera morta?
Al netto delle
circostanze storiche , ineludibili e intrascurabili, noi riteniamo, fermamente
riteniamo che il tuo messaggio – non si tema di usare la parola, fini troppo
usata in passato e perciò depauperata, dispoliata della sua intima vis semantica – abbia tuttora una sua
validità. Vale a dire una verde, perenne primavera.
Ci piace terminare con
un giudizio di Montini, che ci pare condensi, cogliendone la peculiare essenza,
il profilo di un santo così singolare, costituente un unicum nella storia
bimillenaria, aperta da poco al terzo millennio, della Chiesa: «Nella
esortazione del suo primo Sinodo provinciale, san Carlo ammonisce se stesso e i
vescovi convenuti, ricordando che patres,
non domini sumus (siamo padri non padroni). Perciò a noi Egli rimane come
l’esempio ideale del riformatore, che ha l’arte di concepire la norma
dell’agire altrui, la forza di persuasione e di comando per imporre tale norma
alla volontà degli altri, la costanza per renderla ferma e generale, la
severità per incutere salutare riverenza e timore, il coraggio per sostenere le
opposizioni e l’impopolarità della sua audace intolleranza verso gli abusi ed i
disordini, la bontà di dirigere come si conviene a pastore ed a padre, la pietà
che sa compatire e perdonare, e la santità infine che fa del governo un
servizio al prossimo in virtù dell’amore di Dio».
Domenico Franciò