sabato 24 dicembre 2011

Enzo Bearzot, un uomo vero


Sul commissario tecnico della nazionale Enzo Bearzot, scomparso un anno fa nella commozione generale, vorrei fare una rapida riflessione. Osservo anzitutto che la parola più usata, in quella circostanza, per definirne la personalità è stata quella – non certo consueta e non certo in linea con questi nostri tempi – di ‘galantuomo’. Galantuomo, cioè persona onesta, sincera, leale, di cui ci si può fidare e – nel caso – a cui ci si può tranquillamente affidare. Una persona ‘per bene’, detto con altra parola: e proprio con questa sarebbe tanto piaciuto a Bearzot essere ricordato.
Da una interessante, e amorosa, biografia-intervista di Gigi Garanzini edita nel ’97 apprendiamo che Bearzot era convinto che il suo fosse un mestiere «atipico ed estremamente empirico», che compito fondamentale dell’allenatore fosse quello di costruire anzitutto il ‘gruppo’, ossia un insieme solidale ed affiatato: preziosa e insostituibile risorsa, di cui altri avrebbe fatto un uso sciagurato. Un sano empirismo dunque lo portava a diffidare del calcio tutto di testa, asservito all’esatta applicazione automatica, perfino ossessiva, di schemi e controschemi. La partita per lui doveva essere invece – ecco l’idea geniale – «come un pezzo di jazz», musica che vuole, come è noto, interpretazioni sempre nuove e rinnovate. Ciascuno suona, sì, il proprio strumento, ma su una base armonica comune e sui tempi di fondo dettati dal ‘regista’: il tutto a confluire nell’assolo, emozionante e risolutivo, del solista. Lo spartito, mai fisso, adattato, volta per volta, al tema musicale, ossia all’avversario di turno. Calcio perciò tutt’altro che difensivo, bilanciato com’era tra una solida intelaiatura collettiva e il vibrare creativo di estri e spunti individuali (il pensiero corre veloce, più che al trionfale ’82, al preparatorio e anch’esso indimenticabile ’78). Dell’uomo Bearzot, nutrito, fra l’altro, di cultura classica – Orazio era il suo autore preferito –, vengono subito in mente una ruvida ma efficace comunicativa, una non comune capacità di ascolto, un geloso sentimento della dignità personale. E se queste qualità umane sono chiaramente percepibili, o intuibili, quando si è nel pieno del vigore, tanto più, e maggior ragione, sono da apprezzare quando si passa nel cono d’ombra della quotidianità. Al clamore e al luccichio, spesso futile e spocchioso, dei palcoscenici televisivi, Bearzot preferì, con scelta radicale, la vita appartata degli affetti, familiari e amicali. In una società infarcita da melensi parolai, di urlatori insultanti e scalmanati, di esibizionisti sfrontati e privi di ogni grazia, Bearzot ha fornito un esempio di umanità discreta, dignitosa, forte: cioè, in ultima analisi, di autenticità. I grandi uomini hanno il potere, un po’ misterioso in verità, di una contagiosa irradiazione educativa. Cui soltanto un evento irreversibile come la morte può mettere il sigillo dell’esemplarità, consegnandola alla incondizionata stima e al rimpianto di tutti.
Domenico Franciò

sabato 5 novembre 2011

Recensione a “Un cattolico a modo suo” di Pietro Scoppola, Morcelliana 2008


Non si può, credo, non sentirsi attratti da persone che, credenti o non credenti, abbiano spessore di umanità; e dunque non abdichino per nessuna ragione all’esercizio della riflessione personale: a costo di affrontare i rischi inevitabilmente connessi a temi di grande delicatezza e complessità, spirituale e morale. Per non altro fine che non sia quello, nobilissimo, di salvaguardare con somma cura e senza risparmio di forze, quel bene prezioso che è la pace con sé stessi, l’accordo con la propria coscienza. D’altra parte l’acquisizione del ‘primato della coscienza’ – di questo si sta parlando – non può certo dirsi recentissima. Ad esempio, un’affermazione del Concilio Lateranense IV del 1215 suonava così: Quidquid fit contra conscientiam aedificat ad gehennam, che potrebbe rendersi: Qualsiasi cosa fai contro coscienza ti porta, mattone su mattone, all’inferno.
Ciò premesso, mi occuperò di un libro e di una persona che proprio per le qualità sopra accennate mi hanno affascinato e commosso. Già la dice piuttosto lunga il titolo, che nasce da un giudizio pronunciato da papa Paolo VI. Che su Scoppola, attaccato con durezza dall’Osservatore Romano per un presunto “pluralismo senza criterio”, ebbe ad affermare: «Scoppola è un cattolico un po’ a modo suo, ma è bene che rimanga» (ossia – spieghiamo al lettore – non si dimetta dal convegno cui era stato invitato). E l’autore chiosa: «un “cattolico a modo suo”, detto dal Papa, era il massimo che potessi desiderare».
È un libro – nota finemente Giuseppe Tognon in premessa – «fuori da ogni schema, ricco di suggestioni, amaro e fiducioso, autobiografico e insieme universale», pensato e scritto nell’ultimo scorcio della vita «in un clima di grande intensità emotiva e di profondo raccoglimento». Avrebbe potuto l’autore scrivere in astratto sulla vita, la morte, la fede, la ragione e invece «parla di sé, in un gesto di colta umiltà e di confidenza con il lettore».
I temi sono molteplici ma sostanzialmente rientrano nella letteratura civile (memorabile la definizione della politica «come valutazione razionale del possibile e come sofferenza per l’impossibile») e soprattutto nella letteratura religiosa.
L’immagine complessiva che di Pietro Scoppola viene fuori dalla lettura è quella di un uomo di rara onestà, di rara limpidezza morale e intellettuale. Che dice di sé, dei suoi, dei maestri con sincerità estrema: l’autoritarismo del padre, uomo buono peraltro; l’emotività ansiogena della madre, fonte delle insicurezze e timidezze adolescenziali; la formazione rigorosa, quasi granitica, ricevuta alla scuola dei gesuiti, e insieme piuttosto chiusa, scolastica e dogmatica; la confessione dei propri debiti culturali (su tutti H. I. Marrou, col suo storicismo umanistico aperto ai valori della trascendenza); la fede, considerata non, o non solo, come dottrina bensì fulcro e motore dell’esistenza: suscettibile sempre di nuovi arricchimenti, e instancabilmente sollecitata da dubbi e istanze problematiche che si incarnano alla fine nello stesso modo di credere.
La questione della fede è il cuore del libro. Sono ridiscussi molti dei punti nevralgici che alla luce della razionalità umana – di cui peraltro non sono ignorati i limiti – riesce difficile accettare: citiamo per tutti l’idea dell’inferno che «anche ridotta alla nozione metafisica della privazione di Dio rimane intensamente tragica», e non solo per l’uomo. Scoppola era perfettamente consapevole di aver fatto un cammino «nel senso del concilio e talvolta forse anche oltre il concilio».
L’ultimo capitolo è quello che più tocca certe corde dell’anima. L’autore parla, continuando ad assecondare un’esigenza radicale di sincerità, della malattia che lo ha raggiunto. Senonché, pur nella straziante situazione, quando, stando “dentro al tritacarne, sotto torchio”, sarebbe impensabile o quantomeno illusorio l’esercizio della lucidità e della capacità di distinzione, egli non intende abdicare alla sua dignità di persona. Intuisce che la sofferenza bruta può, in qualche modo e in qualche misura, essere trasformata in dolore umanizzante. Per questo non starà a chiedersi: “perché a me”, ma cercherà di disporsi ad accogliere il «Sia fatta la tua volontà»: nella persuasione che è «nel modo di rispondere all’evento» che si fa o non si fa, in definitiva, la volontà di Dio. Grato al Signore dei momenti di intensa intimità spirituale, quasi inimmaginabili, vissuti coi propri cari, continuerà a sforzarsi, con umiltà, ad essere e sentirsi «in sintonia con questo grande e misterioso disegno di amore che ci coinvolge tutti». Sperando così di rimanere, fino alla fine, nella “corrente viva della fede”.
Domenico Franciò

lunedì 15 agosto 2011

Recensione a “C’era una volta il mito” di Maurizio Bettini, Sellerio 2007, € 12,00




C’era una volta… Non un re e una regina, e neppure il West di Sergio Leone, ma… il mito. E così già sai dal titolo che il libro tra le tue mani non è il solito (serioso) manuale di mitologia, quello che, scientifico o divulgativo che sia, ti procura, anche per pretesa di completezza, un certo effetto soporifero.
Che libro è allora? Un libro che affronta, con la competenza agguerrita del filologo classico e il piacere contagioso del narratore, il mare magnum della mitologia creata dalla inesauribile fantasia degli antichi greci, collettiva o individuale, e tenta di mettere un po’ d’ordine ricercandovi vie praticabili. Altrimenti detto: non l’erudizione che sistema e congela in un arido lemmario, ma la scrittura, vivace e brillante, di chi, tra le maglie di una intrecciatissima rete, persegue un disegno, una sua direzione di marcia. Sta a lui raccontare e spiegare, ricorrendo, quando è necessario, a rimandi incrociati, a collegamenti trasversali, a riprese e ripetizioni, fatti e personaggi che hanno sempre un significato più profondo di quello che appare in superficie. Ed ecco allora che i racconti più vari e meravigliosi, come quelli di fondazione, connessi all’origine di certi rituali o costumanze, o quelli legati alla misoginia (Pandora e il suo vaso), alla fatica vana (Sisifo), allo «scambio delle vite» (Alcesti che si sacrifica per il marito), e altri ancora, sono disposti in un quadro narrativo che rimanda costantemente a colui che, dietro le quinte, cura il montaggio e dispone le cose e i colori. Tale presenza si avverte da certi ammiccamenti o allusioni, o in certe increspature ironiche e divertite, o in altre di tonalità differenti, anche risentite. Ci si accorge così che la distanza tra l’atemporalità mitica e il nostro tempo viene accorciata, talvolta quasi azzerata. Al lettore è garantito il piacere di respirare una penetrante aura ironica, sottile quanto bonaria, che lo illude di una qualche complicità con l’autore. Per questo abbiamo spesso del fatto nudo e crudo la ‘ricaduta’ sull’oggi, il significato per noi. Stiamo pensando, per esempio, a un ammiccare malizioso a certa (insensata) prassi politica attuale: laddove si coglie l’analogia tra l’abitudine degli antichi a consultare gli oracoli e la smania odierna di consultare… i sondaggi.
Se la funzione primaria del mito pare sia quella di delectare e docere, divertire e ammaestrare, nondimeno è più probabile per l’autore che essa consista soprattutto nel piacere del puro raccontare e farsi raccontare. Ma – ci si può chiedere – qual è il rapporto del mito con la letteratura e, in genere, con l’arte? Al riguardo è offerto un esempio emblematico: il racconto di Orfeo e Euridice. Una domanda, cruciale, s’impone: perché Orfeo si volta, contro il divieto, a guardare Euridice, impedendole così di tornare a vita e ricacciandola definitivamente nell’abisso nero della morte? Due risposte sono date. Quella di Cesare Pavese, in linea col temperamento severo e cupo dello scrittore, svela una finissima ragione psicologica: Orfeo si volterebbe per risparmiare all’amata, se riassunta alla vita, lo strazio di doverla riperdere. Un impulso d’amore, d’amore vero. La risposta di Bufalino corre invece sul filo del paradosso, beffarda e cinica come certe battute. Se Orfeo non si fosse voltato, addio Gluck, addio «Che farò senza Euridice…»: quasi che il racconto mitico avesse come sua unica giustificazione proprio quella di rendere possibile, a distanza di secoli, la celebre opera del compositore tedesco.
Il racconto – già si è accennato – non è lineare: per avanzare ha bisogno talora di retrocedere e di prendersi delle pause, parentetiche o digressive. E se l’intelaiatura mitologica è sostanzialmente greca, affascinanti confronti e paralleli vengono scoperti in altre saghe, in altre epiche.
La lieve ironia, costante di fondo di questo narrare, in qualche caso cede il passo al sarcasmo e persino all’indignazione, sferzante e sprezzante. Come quando si parla di mètis, che vuol dire astuzia, intelligenza astuta. Ma – viene precisato con uno scatto perentorio –: «Non quella da quattro soldi del truffatore o dell’imbroglione, ma l’intelligenza che permette di risolvere le situazioni con un guizzo della mente».
Domenico Franciò

martedì 26 luglio 2011

La religione del bar

Dal risvolto di copertina del libro di Domenico Franciò, La religione del bar, Intilla editore, Messina 1987 (1a ristampa 2005).

         
Il racconto eponimo, che dà titolo alla raccolta, è la sommessa celebrazione di quello spirito solidale e fraterno che intride di sé luoghi e situazioni spesso refrattari. Questa corrente di umana simpatia determina il tono fondamentale di un raccontare che predilige la linea diacronica (esperienze della fanciullezza e dell’adolescenza saldate a luoghi ed eventi particolari) senza però trascurare la dimensione sincronica che accoglie esperienze adulte legate soprattutto al mondo della scuola. L’una, che in filigrana si lascia interpretare come una sorta di romanzo di formazione, dà vita insieme con l’altra a un tramato di piccoli, importanti accadimenti e di brevi pause riflessive. L’autore – lo sottolineava Salvatore Costanza nella Presentazione – mette tra sé e il narrato un argine, una distanza che gli consente di cautelarsi dal rischio di trappole facilmente nostalgiche.
La misura cui in genere si tengono i racconti è breve, intensa, non immemore della lezione di certi classici.
Dal principio alla fine si avverte, discreta e leggera, una presenza che sembra respirare aria di mito. Messina, sia che resti sullo sfondo sia che s’avanzi sul proscenio, è non tanto municipalità e localismo, buoni solo per cartoline illustrate, quanto luogo d’anima, terra d’elezione.

venerdì 22 luglio 2011

Per figure intraviste

Dal risvolto di copertina del libro di Domenico Franciò, Per figure intraviste, Intilla editore, Messina 2004.
     
Un campionario o, se si vuole, un collage di “figure” le più diverse, svarianti da un campo all’altro dell’attività umana: dallo spettacolo (teatrale, cinematografico, sportivo) alla letteratura, fino all’anonimo del quotidiano. Ciascuna, in prima persona, rievoca momenti e tratti significativi della sua esistenza, alcune si limitano a dire solo di un cruccio o di una spina non del tutto risolti.
L’idea di penetrare nella intimità viva e delicata e talora dolente delle accarezzate figure pare concretarsi in un disegno “preterintenzionale”, rivelativo di qualcos’altro. L’impressione è che dall’ascolto dei singoli “parlanti”, predisposto a coglierne la cifra più segreta e appassionata, venga a delinearsi sull’apparente dispersività delle non poche confessioni un quadro relativamente solidale di sentimenti, di fatti, di pensieri. Di cultura, in una parola.

giovedì 21 luglio 2011

Tra stupore e disincanto


Dal risvolto di copertina del libro di Domenico Franciò, Tra stupore e disincanto, Intilla editore, Messina 2008.

Il movimento pendolare cui allude il titolo del libro avviene tra l’incanto complessivo del vivere, così tenace, continuo, vivo (e si pensi un attimo al toccante monostico menandreo: «Che meraviglia è l’uomo quando è uomo»), e i molti disincanti che tendono a scalfirlo quando non a scardinarlo.
L’autore guarda al passato e al presente col desiderio di consegnare alla scrittura ricordi, pensieri, emozioni e suggestioni nella misura in cui possano essere condivisi o almeno legittimare una qualche adesione.

Un esempio di scuola ‘antica’



Se per scuola intendiamo non l’istituzione (con la connotazione di metodico e collettivo che la parola si porta) ma semplicemente, ed essenzialmente, una modalità, più o meno formale, di trasmissione del sapere, Seneca può fornirci al riguardo una prospettiva a dir poco allettante.

Una sua famosa osservazione al vetriolo prende di punta una realtà assurda e al limite dell’intollerabile: Non vitae discimus sed scholae, non impariamo per la vita ma per la scuola. Frase che suona ancora di straordinaria attualità nell’indicare ciò che mai andrebbe fatto, la frammentazione e dispersione del sapere in infiniti e asfittici rivoli informativi che non ampliano l’orizzonte culturale umano ma lo deprimono e schiacciano con la mole indigesta della sterile erudizione.
Per rendersi conto della portata provocatoria della sententia senecana basta rifarsi al contesto storico-culturale in cui essa nasce. Da un lato, il degrado insanabile della oratoria che, col venir meno delle condizioni di libertà garantite dallo stato repubblicano, smette la sua carica vitale e, all’ombra della scuola, si riduce a pura declamatoria, nel culto di una parola vuota più di un guscio vuoto. Dall’altro lato, la persistenza di una filosofia teorica, verbosa e verbalistica, incapace di misurarsi con la vita, di dare risposta ai sempiterni e laceranti problemi dell’uomo. Non sono in realtà, nella visuale di Seneca, le sottigliezze a rendere gli uomini buoni, solo la ricerca di saggezza è il vero bene. I filosofi sottili sanno offrire insegnamenti che valgono per la scuola, non certo per la vita. Ed ecco delinearsi per contrasto ciò che conta veramente. In una lettera indirizzata all’amico e discepolo Lucilio (6, 4-7), la prima, interessante affermazione a venirci incontro è il desiderio del maestro di travasare tutto nell’amico-discepolo (omnia in te cupio transfundere) al fine di dar vita a una comunicazione totale, ad un’osmosi spirituale che vinca il senso di alterità talora persistente anche nei rapporti di più ricca intimità e risonanza affettiva. Tale desiderio, per conseguenza logica ed emotiva, fa sì che il continuo studio del maestro avvenga sempre nella gioia perché ha la sua ragion d’essere nel subordinarsi all’insegnamento: discere insomma per docere, imparare per insegnare. Giacché, è affermato subito dopo, se dovesse tener chiuso il suo sapere dentro di sé, non ne trarrebbe nessun giovamento, nessun piacere. Scavando ancora, si arriva a dire che persino la saggezza, l’aspirazione massima per un filosofo, è da rigettare se solo non possa essere condivisa. La delicatezza premurosa e generosa del maestro apparirà in tutta evidenza là dove è detto che, spedendogli alcuni libri, egli, per agevolare la ricerca delle cose importanti, metterà dei segni a quei passi che più hanno destato in lui interesse e ammirazione. Ma – alla fin fine – quel che veramente favorisce lo scambio non è tanto lo scritto, il discorso scritto, quanto la presenza viva del discepolo: lungo è il cammino affidato all’astrattezza dei precetti e degli ammaestramenti, breve ed efficace quello che si realizza nel concreto degli esempi. Platone e Aristotele impararono certamente di più dal comportamento di Socrate che non dalle sue parole.
Il vertice educativo è toccato nella frase successiva: la presenza del discepolo è necessaria perché non solo abbia a trarre profitto dal maestro, ma perché proprio lui, il maestro, abbia da imparare dal discepolo. A questo punto si fa chiaro che la dualità maestro – discepolo è saltata via, con annullamento dei ruoli prefissati e irrigiditi. Un movimento si attiva di interscambio per cui non si sa più chi sia il maestro chi sia il discepolo, essendo l’uno e l’altro vitalmente complementari.
In conclusione credo si possa sostenere tranquillamente che un’autentica trasmissione del sapere non può che articolarsi in un modo che si potrebbe definire bidirezionale. Un insegnamento che sia soltanto unidirezionale e unilaterale, quale è quello praticato a tutt’oggi dall’ordinaria prassi scolastica, è cosa più vecchia e stantia del magistrale esempio suggeritoci da un uomo di duemila anni fa.
Domenico Franciò
[Articolo apparso su La Scintilla del 2 novembre 2003]