venerdì 27 maggio 2016

Grande uomo, grande campione



[fotografia tratta da http://www.gazzetta.it]

Abbiamo assistito per televisione alla formidabile prova che Vincenzo Nibali, il grande campione messinese che si divide tra Sicilia e Toscana, ha dato dopo tanti incidenti che l’avevano portato al punto di abbandonare la corsa. Ma, come ben sappiamo, l’uomo, l’uomo vero, forte, autentico si vede nelle difficoltà. Queste difficoltà, oggi, 27 maggio 2016, Nibali, con una gara giudiziosa di altissimo livello tecnico in cui ha dato tutto se stesso fino allo stremo delle forze, s’è non solo aggiudicata la tappa ma ha ridotto a soli 44 secondi il distacco dalla maglia rosa. E domani con un’altra impresa delle sue – tocchiamo ferro – potrebbe vincere tappa e giro d’Italia.
Le telecamere lo hanno inquadrato alla fine della corsa, con il petto scosso da singhiozzi irrefrenabili quanto salvifici, e i suoi amici che cercavano di confortarlo. Il ciclismo è lo sport più massacrante che ci sia. Sì, puoi contare sull’apporto e sull’aiuto dei compagni, ma, al momento di attaccare per rosicchiare minuti su minuti agli avversari, sei solo, spaventosamente solo, con la tua voglia matta di vincere e perfino, se possibile, stravincere.
Il suo pianto tradiva però un immenso dolore: a Sant’Agata, sul litorale messinese, era accaduta una terribile disgrazia che aveva stroncato la vita di Rosario, un bambino falciato da un camion della spazzatura mentre correva in bicicletta. Certo, non lo si è fatto apposta – ci mancherebbe – e con ogni probabilità l’autista sarà il primo a piangere la malasorte (δυστυχία) di quel bambino; che – a detta dei competenti – aveva la stoffa del campioncino.
E dunque la nostra idea è questa: che il buon Vincenzino domani, pensando al giovanissimo amico scomparso in modo così drammatico, voglia ripetere la bellissima performance di oggi, per dedicargli vittoria di tappa e giro. Dai Vincenzino, sei tutti noi! Noi tutti siamo con te per godere insieme una vittoria che è non solo sportiva, ma è la vittoria del bene sul male.
Domenico e Marcello Franciò

P.S.
Noi solo questo possiamo fare di fronte all’incredibile tragedia che ha gettato nel più profondo dei dolori genitori e i parenti del bambino, unirci nella preghiera, affinché Iddio li salvi dalla disperazione inconsolabile, e confidare, soprattutto, nella imperscrutabilità della Divina Provvidenza. E non dimentichiamo quei bellissimi versi manzoniani esprimenti la solidarietà e la condivisione del Signore su Napoleone moribondo: «il Dio che atterra e suscita, / che affanna e che consola, / sulla deserta coltrice / accanto a lui posò».

domenica 28 febbraio 2016

Umberto Eco e il suo trionfo della morte

[fotografia tratta da http://xl.repubblica.it/]
La morte di Umberto Eco (οἶκος, casa, economia etc.) mi ha non poco rattristato. Uno degli intellettuali più famosi a livello internazionale, e dei più fecondi (e facondi). È stato per i nostri sciagurati tempi quello che Benedetto Croce fu per i suoi, un ago della bilancia culturale, un costante e imprescindibile punto di riferimento. Io l’ho conosciuto culturalmente nello scorcio degli anni ’70 quando insegnavo al liceo La Farina: testi come “Opera aperta” o il più recente “Lector in fabula” non potevano sfuggire alla mia prensile e mai appagata curiositas culturale. È stato un inventor, un euretḗs di generi letterari, nel senso che li ha rinnovati dall’interno. Ha sondato da scienziato tutti i campi del sapere e dell’attualità. Un testo come “Fenomenologia di Mike Bongiorno” scopriva il punto di appeal del celebre presentatore italo-americano, lo scopriva proprio in quella mediĕtas, in quel barcamenarsi tra gli estremi, in quella aurea mediocritas che il buon Orazio vivamente raccomandava.
“Opera aperta” insegnava agli intellettuali italiani, soprattutto a quelli che operavano nella scuola come docenti che un’opera è appunto sempre aperta: aperta al momento storico che costantemente si rinnova e non trova mai abbentu. L’opera si arricchisce dei contributi esegetici e interpretativi che diventano così parte integrante di essa. Per il seguito non si potrà non tenerne conto.
Quanto al romanzo ambientato nei meandri della cultura e del tempo medievali, “Il nome della rosa” divenne il prototipo di una narrativa tra noire e gialla situata in un preciso arco spazio-temporale. È inutile ricordare come anche quest’opera di Eco centrasse pienamente l’obiettivo e suscitasse una validità di consenso e di eco (se mi si passi il calembour) di carattere mondiale.
È facile prevedere che dopo la grancassa dei mass media (radio, giornali, televisione e quant’altro) fra una settimana l’immagine di Eco sarà come stinta, sbiadita, scolorita. È destino dei grandi, ma aggiungerei di ogni destino umano, che raggiunto l’apice della montagna incantata si cominci a scendere nella valle sottostante, dove scorre il Lete, il fiume della dimenticanza e, peggio, della trascuranza.
Ma è anche peculiare dei grandi che il loro nome riluca, sfavilli e viva di gloria eterna, imperitura ogni qualvolta qualcuno prende in mano i loro libri per amorevolmente studiarli, e procedere sicuro lungo la direzione da essi additata.
Domenico Franciò

lunedì 25 gennaio 2016

Il Falstaff verdiano



Tempo fa ho visto alla televisione il Falstaff verdiano, che, come si sa, è l’ultimo, in ordine cronologico, capolavoro del genio di Busseto. Si trattava di una ripresa dal vivo dal Teatro del Maggio Musicale Fiorentino. La direzione era del grande Zubin Mehta, gli interpreti costituivano un cast che, per quanto possa immaginare, doveva essere di tutto rispetto. Il testo, mai banale, si incentra sull’espressione «Tutti gabbati», ripetuta quasi ossessivamente, o meglio con aria sorniona dal gigantesco e grasso protagonista, un basso dalla voce potente superbamente portata e modulata, e da un coro formato, in maggioranza, da donne. Un giovane tenore faceva da contrappunto al protagonista, ripetendo «Tutti gabbati». Il vertiginoso finale, tipico di tanti capolavori verdiani, trascinava gli spettatori ad un’ovazione lunghissima, ad entusiastici e protratti applausi. Poi, la solita passerella, con la compagnia cantante schierata sul proscenio a raccogliere, con grati inchini, l’esultanza del pubblico. Tenendosi per mano, formavano gruppo, quasi una catena.
I singoli cantanti si presentavano all’applauso secondo un ordine gerarchico costituito dai ruoli ricoperti. Naturalmente l’applauso più grande, incontenibile era per lui, il gigantesco Falstaff, ma – mi chiedevo – come si fa a trovare un personaggio per quel ruolo che unisca in sé stazza, talento e voce?
Credo che per un attore, un cantante, un regista non ci sia momento più gratificante del riconoscimento da parte del pubblico del suo valore e degli sforzi compiuti in vista della esibizione. Penso anche che la rivalità e gli antagonismi feroci più o meno latenti o sommersi, tra gli attori della scena in quel magico momento vengano superati, e non ci sia proprio posto per invidiuzze del genere.
Quando e se, poi, le rappresentazioni si concludono a tarda sera, va da sé che la compagnia starà ancora insieme; stavolta però intorno ad una mensa, dove tra coppe di vino scintillante e cibi squisiti si rilasserà dalla tensione e dalla fatica sostenute anche se – c’è da scommettere – qualche rimpianto affiorerà per una battuta non resa a dovere, per un gesto non proprio congruo, per una risatina non prevista dal copione...
Domenico Franciò
[Immagine "Falstaff in un dipinto di Eduard von Grützner" tratta da Wikipedia, l'enciclopedia libera]

mercoledì 6 gennaio 2016

Cane e padrone



Un giovanissimo cane Schnauzer, della più pura razza canina, quella così cara al Führer tedesco come prototipo di razza, andava spegnendosi. Una cosa che ti strappa il cuore dal petto.
Pensate. Un animale, vivo di una vita strabocchevole, un segno della vita quando essa appare in tutto il suo fulgore, in tutta la sua lussureggiante, prepotente vitalità, nel suo compiuto splendore. Questo cane – bello, magnifico, che tutti non gli negherebbero un complimento, un’ammirazione, un gesto affettuoso – questo cane ischeletrito dalla micidiale leishmaniosi, ridotto a una misera larva, a quattr’ossa vaganti e scollate, vive per una cosa sola: giocare. E tu, che non sei un perfido, un miserabile; se sei, sia pure indegnamente, uno che appartiene alla “razza” che dicesi umana; tu devi, dico devi, prestarti a giocare: con lui e come vuole lui, come si fa con qualunque cane del mondo. Tu gli tiri il legnetto e il pelleossa, che pare se lo siano mangiato i cani tanto appare spolpato – come qui pertinentemente si potrebbe dire – ha un solo desiderio: andare ad afferrarlo. E tu non devi fare altro che assecondarlo nella sua feroce volontà, vale a dire fargli gustare a sazietà, a scialo, l’ultimo piacere che la vita gli offre: giocare col (presunto) amico, del cui affetto lui ha sempre bisogno e del quale mai ha dubitato e dubiterà. Diavolo d’un cane! È mezzo morto, è più che morto, e non vuole smetterla, una volta per tutte, di tirare le cuoia, farla finita insomma con questa esistenza che altro non gli dà e gli ha dato come compagno e padrone se non quel bipede, cialtrone d’animo e di corpo. Eh, sì, diavolo di un cane che non sei altro: non ti sei capacitato, e mai forse ti capaciterai che lo strano individuo è in realtà il più feroce degli esseri viventi. Perché tu non ti sogneresti mai di portare guerra ai confratelli, e, se e quando lo facessi, sarebbe sempre per difendere, o compiacere, lo squallido essere che di te fa uso, nei casi migliori, per scienza e conoscenza (vedi la più delle volte disutile, impietosa, brutale, barbara pratica della vivisezione). Tu non fai guerra, dicevo, ai tuoi confratelli, fratello mio triste, dal tenero candore che sempre imperla muso e occhi. A te chiedo perdono. Lo faccio a nome – se mi è consentito – della stupidissima congrega che una cosa sola sa fare, in una sola cosa riesce bene: distruggere se stessa.
Quanto a te, amico mio dolcissimo, dimidium animae meae, abbiti, prenditi tutto il mio affetto e la mia eterna gratitudine. E accetta il ripullulante rimorso per quanto ti si è fatto soffrire. Pace in eterno, amico. Possa tu un giorno risorgere al cielo cui anche noi indegnamente aspiriamo.
Domenico Franciò