venerdì 10 aprile 2020

Recensione a Eugenio Scalfari, “L’ora del blu”


Nella poliedrica personalità di Eugenio Scalfari non mi par dubbio che la parte razionale, raziocinante, insomma intellettualistica, prevalga, e non di poco, su quella emotivo-sentimentale. Ma ecco la sorpresa, lo spiazzamento, il tiro birbone che il buon Scalfari ti gioca: egli è un poeta, uno che sa maneggiare gli strumenti dell’arte, ossia quelli ritmici, rimici che lo apparentano agli altri, ma che accampa anche il diritto ad una ἀναγνώρισις, riconoscibilità, a una sua precisa identità. Egli, in altri termini, non ha potuto non rispondere a una chiamata, a una ‘vocazione’, a una necessità intima, che gli imponeva di entrare nell’agone poetico. Non – sia chiaro – in competizione con altri, ma per una urgenza, una cogenza, una scommessa fatta ante omnia con se stesso, cui non poteva in nessun modo sottrarsi o rinunciare, pena la mutilazione di una parte viva di sé.
La poesia, ogni autentica poesia ha il suo background, il suo retroterra o, se più piace, la sua humus, in una visione della vita, in quella che i tedeschi chiamano Weltanschauung; visione, appunto, che non può non tener conto di quanto la vita nostra sia fatta di aleatorietà, di precarietà; come essa sia intrisa usque ad medullas del sentimento dell’effimero, del caduco cui vanno inesorabilmente incontro le umane cose: le nostre azioni, le nostre emozioni, e commozioni, i nostri affetti, in una parola tutti i sentimenti nostri.
Quanto detto credo sia indiscutibile, e contrassegna tutta la storia, pressoché millenaria, della poesia.
Guardare con occhi asciutti la realtà quale essa è, è proprio dei coraggiosi, di coloro che non cedono alla seduzione delle facili illusioni e che, ciò nonostante, non si rassegnano a non inseguire, perseguire un loro sogno, un solacium (conforto), perfino uno spicchio di felicità.
La cosa che d’acchito, accostandosi a questi versi, salta agli occhi è la congruenza, la convergenza e l’accordo tra forma e contenuto.
Il contenuto – per avvalerci di un trito scolasticume, ma che qui per comodità viene a taglio, e confidiamo non senza una qualche efficacia – non è mai banale, quanto dire scontato.
Dalla realtà il poeta trae infatti aspetti inediti, insospettati, quelli che sfuggono ai più, rimanendo inosservati.
È questo, se non m’inganno, l’aspetto cognitivo, gnoseologico del ποιεῖν, che, con gli accorgimenti, le trovate, gli adescamenti e incantamenti suoi propri, ci porta ad arricchire il nostro mondo interiore, ciò che, in fin dei conti, veramente vale. È così che l’ordinario, l’essere proclivi alla abitudinarietà routinaria, riceve un contraccolpo perfettamente proporzionato alla potenza che il poeta è in grado di esprimere.
La nota di accorato struggimento che, come un basso continuo, connota questa poesia, rende certi dell’amore totale, meglio totalitario, portato alla vita; anche se, tirate le somme, abbozzata la partita doppia del dare e dell’avere, il dolore e la sofferenza prevalgono, e, in misura considerevole, sui fugaci momenti di gioia.
Lo stupor, la stupefazione per il mistero che avvolge da ogni lato è un altro aspetto che immette Scalfari in una più che secolare tradizione.
Poteva essere altrimenti? Un poeta, un poeta che si rispetti, non può non essere colto, non può non essersi nutrito dei succhi più vitali della cultura poetica: egli, con più o meno di consapevolezza, trasceglie di codesta tradizione quel che più fa al caso suo, che risponde ad una sua intima esigenza, e la intride, colora, permea della sua personalità.
Dal punto di vista tecnico-formale (senari, settenari, quinari, e soprattutto endecasillabi) siamo nel vivo della tradizione, in quel che di durevole comporta.
Sub specie contenutistica si è di fronte a una vera e propria visione del mondo. Che è di Scalfari e di nessun altro.
Essendo un non credente, egli ha una concezione sostanzialmente nichilistica; a proteggerlo però dagli effetti perniciosi, per non dire disastrosi, di tale non-credenza che quella non può non implicare, è proprio la sua poesia. Giacché ogni poesia, dalla grande alla minima, ha questo di peculiare: che è sempre, in ogni caso, altrice, motrice e matrice di vita, di vitalità, perfino di felicità, sia pure venata di una lieve, dolce, soffusa malinconia.
I ricordi più belli riportano all’infanzia, a quei natali che lo vedevano insieme alla madre «Deporre il bambino / nella mangiatoia / e l’asino e il bue / lo riscaldavano col fiato / e i pastori intorno / e la cometa che tracciava nel cielo / l’avvento del miracolo».
Due note finali.
Come mai la silloge ha per titolo L’ora del blu.
A nostro sommesso avviso, la ragione prima, la più ovvia, è un centone di citazioni insistenti su tale colore: svariano da Ungaretti, Montale, Quasimodo a Saffo, all’anonimo del Pervigilum Veneris, a Garçia Lorca.
È che, muovendosi tra cielo e mare, il blu non poteva non essere il colore dominante; che d’altra parte non si tratta di un colore aggressivo, squillante, prepotente come il rosso: esprime una pacatezza, oseremmo dire una dolcezza, che sono una conquista – e, come tutte le conquiste, faticosa, sofferta ancorché piacevole e appagante – della maturità di Eugenio Scalfari.
In definitiva, una poesia che riassume, come meglio non si potrebbe, che cosa è l’uomo, in che consiste la sua humanitas; e si risolve in una esaltazione della creatività, l’unico mezzo di cui disponiamo in grado di vibrare il colpo decisivo all’infelicità nostra.
La poesia Amapola rievoca uno di quei ricordi custoditi nel geloso scrigno della memoria. Quella canzone degli anni Quaranta, portata al successo da Rabagliati, in cui ricorre la frase “lindissima Amapola”, io la interpretavo alla stregua dell’imperativo categorico kantiano, vale a dire: ama Pola.
E non posso sottacere, a questo punto, l’allusione a un’altra canzone, assai in voga in quegli anni, Blue Moon, “Luna malinconica”: con quei versi finali così struggenti che condensano, come meglio non si potrebbe, il senso della nostra vita: «Tu sei un sogno infinito / che con noi se ne andrà, / dolce argento di luna».
Domenico Franciò