lunedì 31 marzo 2014

Saggio su “Per curiosità” di Cesare Segre, Einaudi 1999



Se per ipotesi mi fosse stato chiesto tempo fa a bruciapelo, e preteso una risposta immediata, su quale gesto tra i tanti compiuti da papa Giovanni Paolo II fosse da considerare il più strepitosamente magnanimo e al tempo stesso originato da quell’agape senza la quale Paolo di Tarso proclamava con impeto che ogni altra virtù sarebbe stata un vero nulla, un cembalo vuoto, avrei avuto qualche perplessità, non mi sarei sentito di dare risposta pronta e sicura. Ora non più. Dopo aver letto “Per curiosità” di Cesare Segre non avrei un attimo di esitazione: il gesto più grande compiuto da papa Wojtyla è l’incontro di riconciliazione col rabbino Elio Toaff avvenuto nella sinagoga di Roma il 13 aprile 1986. L’evento è considerato in tutta la sua portata storica da uno studioso di rango, Cesare Segre, appunto, un piemontese di origine ebraica. Nelle sue parole vibra commossa ammirazione per il coraggio inaudito di questo papa che ha fatto quello che nessun altro, prima di lui, aveva osato: rompere il muro di odio di duemila anni di cristianesimo nel riconoscimento degli ebrei come “i fratelli maggiori dei cristiani”.
La gioia dell’avvenuta riconciliazione non toglie però all’autore la immedicabile, struggente amarezza di come si sia potuto, per così lungo tempo, perpetrare una persecuzione così iniqua verso sparute minoranze di dispersi, disarmate e inoffensive, in contrasto stridente col messaggio di Gesù.
Abbiamo messo in contatto il lettore con uno dei capitoli più intensi, accorati, drammatici di un libro in cui l’insistenza sulla condizione ebraica è sottesa a tutto, come la colonna sonora di un film.
Che libro è questo? Ci soccorre lo stesso autore che lo ha sottotitolato «una specie di autobiografia». Ed è lo stesso Segre che definisce il suo lavoro «prova tra la memorialistica e narrativa», parando davanti l’aggettivo ‘avventata’ per avvertire, con un pizzico di civetteria autoironica, del rischio che si corre in questo genere di operazioni letterarie. E altrove spiega anche le ragioni del titolo del libro, il motivo ispiratore che dà unità e rende compatto il tutto. Curiosità, dunque, ma una curiosità naturalmente lontanissima dal senso volgare, restrittivo, pettegolo della parola. È la curiositas conoscitiva di uno studioso incapace, in forza di un interno dinamismo sollecitante, di assestarsi su posizioni acquisite, su allori raggiunti; ma che, mosso dall’amore del sapere, va insaziabilmente alla ricerca di nuove frontiere, di avventure intellettuali, perfettamente consapevole che non si appagherà fino all’estremo della vita del già acquisito perché al saggio, anche con un piede sull’orlo della tomba, piace usare del suo tempo per apprendere e imparare sempre qualcosa di nuovo. Segre, dunque, dal luogo della sua specializzazione iniziale (filologia romanza), avido di nuove esperienze speculative, si fa strutturalista, semiologo, critico militante. Ed è la stessa curiosità che lo ha spinto al recupero memoriale (egli dice ‘mnemonico’). L’autore non si nasconde che un’opera del genere può nascere solo da un certo esibizionismo, dall’alfieriano “amore di se medesimo”, dalla voglia insomma di dire di se stesso, ricercando un equilibrio tra desiderio di confessione e voglia di tenere solo per sé i pensieri più segreti. Non sempre c’è riuscito e ne ha vivo rammarico.
L’autore che prima di questo libro aveva familiare solo il linguaggio critico si è trovato ora, settantenne e per la prima volta, a sperimentare il linguaggio narrativo o evocativo e ne ha constatato la notevole distanza. La soluzione espressiva da lui adottata non è quella classica che ricorre alla terza o alla prima persona: egli assume una certa varietà di prospettive formali, allo scopo di evitare sazietà al lettore. Quando vuole essere più diretto parla in prima persona, ma, ben sapendo però come “le moi est haïssable”, ama variare con la terza persona, il massimo formale del distacco oggettivo (Senofonte e Cesare docent); tuttavia la prospettiva cambia ancora con l’inscenare in forma d’intervista perfino un dialogo tra un personaggio simbolo (Tristano) e un amico; il tutto sempre al fine di “evitare l’ipertrofia dell’io”.
Il libro mette insieme una serie di flash, di momenti importanti che abbiano una certa “potenzialità didattica”. All’autore piace chiarirsi con la parola di Alfieri: «Se non avrò il coraggio o l’indiscrezione di dir di me tutto il vero, non avrò certamente la viltà di dir cosa che vera non sia».
La prima parte, grosso modo, può far pensare a quel che i tedeschi chiamano Bildungsroman. E dunque viene rievocata la formazione ricevuta, le prime fondanti esperienze di vita: l’insegnamento elementare di una maestra vicina alla pensione che «faceva lezione con scrupolo ma non ispirava entusiasmo»; un forte sentimento di avversione alla caccia e a qualunque offesa agli animali da quando gli muore tra le mani un cardellino da lui colpito col flobert di un amico; l’essere stato colto in flagranza di reato da una zia mentre masticava «goduriosamente» il cioccolatino rubato col connesso aspro senso di vergogna che non lo lascerà più. E poi il senso di incertezza sul proprio avvenire professionale, l’incontro positivo con un insegnante di latino, don Biagio Fissore, un «prete assolutamente privo di unzione e traboccante di bontà (direi santità, se potessi giudicare io)»; il momento drammatico della paura in seguito alla proclamazione del Manifesto repubblichino che dichiarava gli ebrei “stranieri” e “appartenenti a nazionalità nemica”, l’aiuto concreto di don Biagio che «la sua fede in Dio la mostrava con le opere mai con le parole» e che si dà molto da fare per salvare tutta la famiglia; e ancora, a seguire, esperienze di carattere intellettuale e culturale come l’insoddisfazione per la critica desanctisiana, troppo incentrata sui sentimenti, che lo porterà a vagheggiare una critica di taglio più asciutto, oggettivo; «la lettura disperata dei Vangeli» che gli fa osservare lo sforzo degli evangelisti a mostrare che Gesù aveva corrisposto davvero alle profezie messianiche; la impressione di aver vissuto il dramma ebraico e quindi di essere stato anche lui «rinchiuso in un vagone piombato, di essere sceso alla pensilina del Lager fra urla e spintoni, di aver attraversato il fatidico cancello, di essere stato selezionato per il gas e di essermi avviato rassegnatamente verso la morte». La evocazione degli orrori nazisti si conclude con una pagina di un livido effetto drammatico: prima un elenco asciutto, quasi a rullo di tamburo, di uomini e donne uccisi ad Auschwitz e, a seguire, una allocuzione rabbiosa, disperata, accusatrice alla terra e ai cieli che hanno assistito indifferenti al dispiegarsi del male. Un’impressionante esplosione lirica che richiama la forza drammatica di certi salmi: «Non una nuvola ha coperto il vostro vile azzurro, / che come sempre mostrava il suo falso splendore; / il sole, rosso come un carnefice feroce ha continuato il suo corso; la luna, come una vecchia puttana, come una peccatrice, è uscita di notte a passeggiare, / e le stelle ammiccavano luride come occhi di topi». E ancora: il ricordo dei reduci che si facevano una colpa dell’essere sopravvissuti all’inferno, del non essere morti insieme agli altri, quasi fossero stati loro ad averli abbandonati e consegnati ai carnefici: il dolore, riaprendosi, superava in alcuni la soglia della sopportabilità forzandoli al suicidio; l’esperienza vissuta col pensiero dall’autore di avere attraversato, passo dopo passo, dettaglio dopo dettaglio, quella tragica esperienza di morte; l’indignazione sarcastica verso i revisionisti che vorrebbero gettare una coltre di silenzio su tutto quell’orrore e coprirlo definitivamente; gli incubi notturni che non consentono il ristoro del sonno affollandolo di fantasmi implacabili.
Il libro trova infine una svolta, un percorso più quieto e sereno quando rifà il cursus honorum, l’itinerario che lo porterà alla cattedra universitaria e ne farà uno degli studiosi più prestigiosi. Così, sul filo della memoria, sfilano le figure di studiosi che sono stati determinanti sulla sua vita. Lo zio Santorre Debenedetti, che l’iniziò all’amore per la filologia inoculandogliene il virus e verso il quale continua a nutrire affettuosissima gratitudine. Decisivo l’incontro col grande linguista Benvenuto Terracini. Che affascinava col suo personalissimo metodo seminariale, in forza del quale il sapere non viene scodellato ex cathedra, ma è frutto di una ricerca dinamica, di un amoroso confronto tra maestro e discepoli che interrogano e s’interrogano su un testo con ampia libertà d’intervento e di proposta da parte di tutti.
Terracini, oltre che maestro di scienza linguistica, fu per il Nostro maestro di vita: «la sua dirittura e il suo fortissimo senso della giustizia convivevano con una bontà che mi pare incomparabile». Segue un gustoso ricordo del poeta Montale di cui sono spigolati gli umori bizzarri e balzani attraverso arguti aneddoti che ce ne fanno conoscere lati insospettati. Tenero ricordo è quello di Lore Terracini, nipote di Benvenuto. La sua intelligenza «era luminosa, la sua capacità di riassumere una questione, magari scherzosamente, inarrivabile», la sua bontà «era così schietta da parere persino brusca: i cincischiamenti e le perifrasi erano esclusi dal linguaggio di Lore».
Poi, il ricordo tenerissimo del padre, la persona che amava di più in assoluto, morto prematuramente all’improvviso, un dolore così cupo per «una morte che mi pare sempre di ieri». E ancora un ritratto dettato da una grande ammirazione e da impeto affettivo, quello di Raffaele Mattioli che lo affascinava per «la capacità di parlare, razionalmente, di letteratura come di un’attività all’interno delle altre attività umane, senza le leziosaggini del letterato puro». E l’amicizia difficile col grande Contini, da lui sempre venerato ma saltuariamente frequentato a protezione e salvaguardia del proprio equilibrio nervoso.
Di osservazioni, punti di vista, contestazioni non vi è certo penuria.
Intanto potremo condividere l’opinione che i dislivelli culturali siano ancora più gravi di quelli sociali perché non bastano a correggerli provvedimenti sia pure generosi. I “poco acculturati” sono in uno stato d’inferiorità quando non siano aiutati a scoprire “i piaceri intellettuali”, a legare limpidamente i ragionamenti. Verità – osserviamo noi – che don Milani aveva già intuito. Con questa accentuazione: che l’opzione culturale è in lui assolutamente prioritaria per ottenere il cambiamento sociale. La cultura, pensava don Milani, avrà una sicura ricaduta nel sociale e nel politico. Solo in un secondo tempo verrà presa in considerazione la dimensione religiosa: senza un minimo di cultura il discorso religioso resta vago, nebuloso e, al limite, superstizioso.
Il degrado dei quotidiani viene addebitato alla sudditanza rispetto alla televisione, al sacrificio della parola all’immagine, soprattutto alla «rinuncia a opinioni nette, sostituite da un accostamento chiaroscurale tra punti di vista opposti, che suggerisce una mistificante filosofia della via di mezzo, e invita a rinunciare ai concetti di vero e giusto».
La filologia è identificata, con magnifica intuizione, con la nostra stessa attività razionale. Vale a dire che c’è filologia in qualsiasi settore di attività intellettuale: fanno filologia gli storici che valutano documenti o dichiarazioni o statistiche, fa filologia il giudice che confronta deposizioni, intercettazioni, rapporti polizieschi. E gli esempi possono andare all’infinito. La filologia non è cosa arida e può anche andare d’accordo col plaisir du texte; il lavoro filologico può non essere estraneo alla scoperta e alla delibazione della bellezza, magari quando questa stia rinchiusa in un angolino e voglia / debba essere snidata. A differenza del lavoro filologico che è distensivo, quello critico «ti prende più totalmente, ti sfibra, ti toglie il sonno».
Sulla Resistenza l’autore ha parole d’entusiasmo: «è stato un fenomeno eccezionale per un paese che le guerre le ha sempre subíte, e vi ha preso parte di malavoglia». L’iniziativa, a volte anche eroica dei partigiani, ricevette la solidarietà della popolazione che in essi si riconosceva.
Altro punto di amara riflessione riguarda la libertà di espressione che il Nostro vede restringersi a poco a poco e la minaccia di una dittatura diversa, “invisibile”: affidata alla potenza pervasiva e invasiva dei mass media, una dittatura tutta fondata sulla persuasione occulta.
Nella parte finale del libro appaiono temi più intimi, confessioni personali e, in senso lato, filosofiche. L’autore confessa di trovare molto difficile credere a un aldilà individuale. Se è vero che la vecchiaia non nutre la speranza è però anche vero che libri, musica, quadri possono allietare la sua condizione. Facendo come un bilancio della sua vita, l’autore spera di «non essere stato completamente inutile» e di avere aiutato qualcuno «a essere miglior inquilino di questo mondo». Si rammarica che le troppe curiosità e il divertimento intellettuale lo hanno dissipato e sottoposto ai rischi di un certo dilettantismo. L’idea che si è fatto conclusivamente degli uomini non brilla certo per positività, anzi il prevalere di una valutazione scettica e pessimistica delinea un quadro quasi apocalittico. Una forza irrefrenabile «porta ogni uomo a imporsi sugli altri, a sfruttarli o eliminarli». La terra per colpa dell’uomo sta andando alla deriva: è inquinata fino al midollo, non riesce a smaltire i suoi rifiuti: «noi viviamo tra la spazzatura, in attesa di essere divorati dalla stessa spazzatura».
Altra minaccia è la pressione di miliardi di uomini miserabili e denutriti contro una minoranza pasciuta e sprecona. La pressione può diventare invasione e le invasioni barbariche sembreranno al confronto ben misera cosa.
L’autore, lasciando la battuta risolutiva al personaggio simbolo Tristano che preconizza un futuro del mondo radicato sulla pace perfetta, afferma che «i governanti saranno saggi e gli uomini pervasi dalla passione della giustizia, accesi di amore reciproco, votati alla bellezza, alle arti, al rispetto della natura». Uno sberleffo di chiara matrice leopardiana dà un calcione definitivo alle “magnifiche sorti e progressive”, chiude lo sguardo gettato sul futuro.
Mi pare di potere affermare in conclusione che il libro di Segre è un libro singolare: deve essere costato all’autore tanto sforzo e sofferenza, e gli ha chiesto molto, molto coraggio per dire certe cose. Pur mirando – di massima – ad una lingua ‘continua’, l’autore persegue un disegno vario, mosso, qualche volta spiazzante. La gamma dei sentimenti vi è tutta rappresentata. A parte l’amore erotico, cui si accenna soltanto di striscio, forse per una sorta di pudore, tutti gli altri sono vivacemente presenti: l’amicizia, la gratitudine, la bellezza, l’indignazione, l’ironia, il sarcasmo. Se rimane nel lettore l’impressione di una certa disuguaglianza, di una certa oscillazione pendolare è perché, credo, così ha voluto l’autore. Il quale rifuggiva programmaticamente da un prodotto ben pettinato, educato, lisciato ed era per un libro dove la vita pulsasse nella sua febbrile, contraddittoria, indomabile frammentazione.
L’opera è una miniera di osservazioni, di riflessioni: alcune riguardano gli specialisti del settore, altre riguardano tutti. Proprio tutti.
Il linguaggio talora è aspro e, diciamolo pure, ha qualcosa di sgradevole che deriva da franchezza caratteriale: al tempo stesso è di una dolcezza, di una delicatezza che s’insinua e ti prende.
Domenico Franciò
[Questo breve ‘saggio’ è stato scritto a ridosso della pubblicazione del libro di Segre (1999), e rimasto nei cassetti.
In occasione della recentissima scomparsa dell’illustre studioso, e col solo desiderio di onorarne la memoria, s’è pensato bene di riprenderlo tra le mani, ripulirlo da qualche sbavatura o imprecisione e di proporlo all’attenzione dei lettori di questo blog.]

martedì 25 marzo 2014

Zdenek Zeman



Men of few words are the best men (Shakespeare)
Esiste un tipo d’uomo poco frequente, se non raro, alle nostre latitudini linguaiole e verbose. È di poche, spiccate, calibrate parole; alle quali dà, o restituisce, quel peso e quella qualità che le sottraggono alla comunicazione sciatta e precipitosa. Un fiero esemplare di questa nobile umanità è senza dubbio un allenatore tra i più discussi, vale a dire tra i più stimati e disprezzati, amati e detestati. È, insomma, il boemo Zdenek Zeman. All’indomani di una sua clamorosa vittoria alla “Scala del calcio”, il controllo perfetto, distaccato della situazione era assicurato da una parola che sembrava provenire dalle caverne del silenzio. Tra la domanda dell’intervistatore e la risposta dell’intervistato c’è sempre un piccolo iato, una frazione infinitesimale di sospensione: condizione indispensabile al germogliare della parola sapiente. Ed è questo il suo segreto, il suo fascino. Di solito invece gli intervistati si comportano così: alla domanda scattano come molle e si sperdono in diluvi di parole.
Se volessimo, per la simpatia che c’ispira, tentare l’impresa di arrivare al cuore della sua personalità, di là e contro i facili stereotipi, sarebbe difficile, quasi impossibile, separare il professionista dall’uomo: tanto l’uno è compenetrato nell’altro.
Due le qualità prevalenti. Da un lato la ricerca, lo studio incessante di schemi, figure, tattiche, che potrebbe far pensare ad un ‘intellettuale’ sostanzialmente arido e monomaniaco. Dall’altro, a contrappunto, l’apertura fantasiosa, l’inseguimento di un sogno, di mete ideali. Insomma un connubio armonico tra geometrie, rigorose nella loro flessibilità, ed estri che vengono secondati.
Questo educatore, che del calcio e degli uomini, pare conoscere tutti i segreti e tutta la potenzialità, e che fin da giovane si è inoltrato nei campi mai sufficientemente arati dell’utopia calcistica, ha vinto ben poco in carriera. Per questo non è raro che venga sbeffeggiato da certi dappoco o anzi danulla. Che, imbottiti fino all’osso dall’aria greve che si respira in giro, vedono tutto in funzione di immediato profitto, e commiserano schifati il perdente, lo sconfitto. Costoro non sanno che farsene di questo sognatore, di questo hidalgo senza macchia e senza paura; di questo controcorrente che, col suo operare silenzioso, disturba – e non poco – il conformismo sociale. Un uomo capace peraltro di ricucire come un ragno una tela strappata, e con volontà di granito riportarsi a galla mediante applicazione ed esercizio strenuo. Che sa l’arte di rialzarsi dalle cadute e guardare con fiducia lontano. Gli è che Zdenek Zeman crede alla bellezza: il suo calcio, vocato all’attacco, deve dare emozioni, espandere gioia: e non solo ai sostenitori. Si dovrebbe essere grati a questo caparbio sognatore perché – implicitamente s’intende, e non con clangore di trombe e tromboni – ci dà un esempio (alto) di professionalità e di umanità. E aggiungeremmo, se vogliamo essere sinceri fino in fondo, di bontà: una bontà rintanata, quasi occultata per pudore nella faccia a dir poco impenetrabile di rugoso pellerossa, se non fosse per quegli strali, quei fulgori ironici e sornioni che scattano a intermittenza dagli occhi a fessura. Bene. Questo ‘roccioso’ uomo, in un’intervista di tanti anni fa a una televisione locale, rivelò una piega insospettata (ma sarà forse più vero dire sospettabilissima) del suo essere. Alla domanda se avesse, alla fine, qualche desiderio da esprimere: «Che mio padre – disse con voce incrinata e umidi occhi – possa riacquistare un po’ di salute». Quella commozione, bucando lo schermo, disse urbi et orbi di che pasta fosse / sia fatto Zdenek Zeman.
Domenico Franciò

domenica 16 marzo 2014

Il libro ritrovato



Può capitare che, a distanza di anni, ti ritrovi tra le mani un libro che da qualche sottolineatura capisci di aver leggiucchiato e poi accompagnato nell’angolo più alto della libreria.
Uno sguardo qua, uno sguardo là, ed ecco sei preso nella pania: non lo mollerai, non ti mollerà. E pensi intanto a quanto di prezioso hai trascurato e se n’è rimasto per tanti anni rintanato in suo cantuccio: la sovrapposizione o concomitanza di altri interessi, tenuti più urgenti e immediati, ne aveva decretato l’inesistenza, o – che è peggio – esistenza da larva.
Il libro è di qualità, vi leggi cose che ti portano in alto, ti fanno respirare aria buona. E ti rimorde d’essere stato incauto, superficiale, ingiusto. Ma così grande la gioia del ritrovamento – un amico, una cosa cara come la dracma evangelica, l’agnello smarrito – che ogni altro sentimento dilegua, o viene risolutamente messo alla porta.
Domenico Franciò

giovedì 6 marzo 2014

Coimbra



Ci sono voci, non molte in verità (Piaf, Nannini le prime a venire in mente), che afferrano alla gola e ti lavorano dentro senza lasciarti in pace. Quella di Amalia Rodrigues, regina del Fado, è tra queste. Ne parlo naturalmente non da competente musicale ma con l’esperienza d’ascolto di chi si è nutrito di musica fin da età tenerissima; e per il quale la musica è stata cosa non marginale o episodica ma sostanziale diletto, gioia, fascinazione.
La canzone che sto ora ascoltando mentre, correndo la Panoramica sud-nord, gli occhi sono presi, e come soggiogati, dalla visione numinosa e lucente dello Stretto, è “Coimbra”. Il primo ascolto non basta, il tumulto – emozione, felicità, un pizzico di strazio – è troppo grande perché pensi a privarmi di un piacere così intenso e a portata di mano.
Mi piace tentarne una descrizione. La voce pare inerpicarsi e slanciarsi sui vertici, su su per le cime per poi, con falcata discesa verticale. inabissarsi a valle. E provo piacere a chiarirmi al meglio anche la struttura.
Dapprima è un prologo appassionato che, in quanto tale, sai che non si esaurirà in se stesso ed è preparazione ad altro, d’altro. Avverti che si stanno gettando le basi sonore di qualcosa di grande, di magnifico, di liberatorio. Questo qualcosa poggia proprio su una pietra angolare, una parola misteriosa, “Coimbra”, termine e insieme principio di un canto a voce piena: flessuosa e dolente. Lasciandomi scivolare in fantasiose interconnessioni mentali ed emozionali accarezzo, per un surplus di commozione, l’esplosione gaudiosa dell’amore paterno nella sublime pagina del figlio prodigo o, forse meglio, del ‘padre prodigo’. Quel padre che, scorto in lontananza il figlio che ritorna a casa, viene colpito alle viscere (questo il senso del greco ἐσπλαγχνόσθη): viscere di gioia, di interminabile attesa, pregustamento di insostenibili felicità.
E mi rivedo quattordicenne sostare sulla scalinata da dove negli anni cinquanta, i primissimi cinquanta, si accedeva (si accede) al liceo Maurolico. Una scalinata monumentale che coi suoi due bracci sembrava, e sembra, disponibile all’accoglienza, un po’ – mi si passi l’azzardo – come il colonnato del Bernini a Roma.
Un compagno di classe, Vittorio, dalla contagiosa comunicativa napoletana, fischiettava con suprema agilità melodica un motivetto da cui pareva trarre particolare godimento e soddisfazione. Si trattava di… Coimbra.
Quant’acqua da allora sotto i ponti, quanta storia, quante storie. La diga, a questo punto, dopo un sinistro scricchiolio, cede di schianto: si aprono le cateratte. E un pianto tutto mi avvolge: forte e sommesso, di struggente tenerezza.

P.S. Rileggendomi, mi accorgo che non ho detto una parola, che sia una, sul significato della canzone. Il fatto è che delle parole ho colto quello che i linguisti chiamano il significante, l’altra faccia della medaglia essendomi preclusa. Di Coimbra ignoravo allora che fosse una città del Portogallo, l’Atene del Portogallo. E allora? Può una città suscitare, come persona viva, una tale passione interpretativa? Non so e non mi pare il caso di approfondire, anche se so di parecchie città fatte oggetto di amoroso canto. Fondamentale però mi sembra che l’onda musicale era per me, ieri e oggi, la prima e unica attrattiva. A distanza di sessant’anni quel caldo, dolente flusso sonoro mi ha, per un attimo eterno, invaso le viscere. Restituendo me a me stesso e riaffidandomi al feroce amore della vita.
Domenico Franciò