Men of few words are the best men (Shakespeare)
Esiste un tipo
d’uomo poco frequente, se non raro, alle nostre latitudini linguaiole e
verbose. È di poche, spiccate, calibrate parole; alle quali dà, o restituisce,
quel peso e quella qualità che le sottraggono alla comunicazione sciatta e
precipitosa. Un fiero esemplare di questa nobile umanità è senza dubbio un
allenatore tra i più discussi, vale a dire tra i più stimati e disprezzati,
amati e detestati. È, insomma, il boemo Zdenek Zeman. All’indomani di una
sua clamorosa vittoria alla “Scala del calcio”, il controllo perfetto,
distaccato della situazione era assicurato da una parola che sembrava provenire
dalle caverne del silenzio. Tra la domanda dell’intervistatore e la risposta
dell’intervistato c’è sempre un piccolo iato, una frazione infinitesimale di
sospensione: condizione indispensabile al germogliare della parola sapiente. Ed
è questo il suo segreto, il suo fascino. Di solito invece gli intervistati si
comportano così: alla domanda scattano come molle e si sperdono in diluvi di
parole.
Se volessimo, per la simpatia
che c’ispira, tentare l’impresa di arrivare al cuore della sua personalità, di
là e contro i facili stereotipi, sarebbe difficile, quasi impossibile, separare
il professionista dall’uomo: tanto l’uno è compenetrato nell’altro.
Due le qualità prevalenti.
Da un lato la ricerca, lo studio incessante di schemi, figure, tattiche, che
potrebbe far pensare ad un ‘intellettuale’ sostanzialmente arido e monomaniaco.
Dall’altro, a contrappunto, l’apertura fantasiosa, l’inseguimento di un sogno,
di mete ideali. Insomma un connubio armonico tra geometrie, rigorose nella loro
flessibilità, ed estri che vengono secondati.
Questo educatore, che del
calcio e degli uomini, pare conoscere tutti i segreti e tutta la potenzialità,
e che fin da giovane si è inoltrato nei campi mai sufficientemente arati dell’utopia
calcistica, ha vinto ben poco in carriera. Per questo non è raro che venga
sbeffeggiato da certi dappoco o anzi danulla. Che, imbottiti fino all’osso dall’aria
greve che si respira in giro, vedono tutto in funzione di immediato profitto, e
commiserano schifati il perdente, lo sconfitto. Costoro non sanno che farsene
di questo sognatore, di questo hidalgo senza macchia e senza paura; di questo
controcorrente che, col suo operare silenzioso, disturba – e non poco – il conformismo
sociale. Un uomo capace peraltro di ricucire come un ragno una tela strappata,
e con volontà di granito riportarsi a galla mediante applicazione ed esercizio
strenuo. Che sa l’arte di rialzarsi dalle cadute e guardare con fiducia lontano.
Gli è che Zdenek Zeman crede alla bellezza: il suo calcio, vocato
all’attacco, deve dare emozioni, espandere gioia: e non solo ai sostenitori. Si
dovrebbe essere grati a questo caparbio sognatore perché – implicitamente
s’intende, e non con clangore di trombe e tromboni – ci dà un esempio (alto) di
professionalità e di umanità. E aggiungeremmo, se vogliamo essere sinceri fino
in fondo, di bontà: una bontà rintanata, quasi occultata per pudore nella
faccia a dir poco impenetrabile di rugoso pellerossa, se non fosse per quegli
strali, quei fulgori ironici e sornioni che scattano a intermittenza dagli
occhi a fessura. Bene. Questo ‘roccioso’ uomo, in un’intervista di tanti anni
fa a una televisione locale, rivelò una piega insospettata (ma sarà forse più
vero dire sospettabilissima) del suo essere. Alla domanda se avesse, alla fine,
qualche desiderio da esprimere: «Che mio padre – disse con voce incrinata e umidi
occhi – possa riacquistare un po’ di salute». Quella commozione, bucando lo
schermo, disse urbi et orbi di che pasta fosse / sia fatto Zdenek Zeman.
Domenico
Franciò
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