Ci sono voci, non molte in verità
(Piaf, Nannini le prime a venire in mente), che afferrano alla gola e ti
lavorano dentro senza lasciarti in pace. Quella di Amalia Rodrigues, regina del
Fado, è tra queste. Ne parlo
naturalmente non da competente musicale ma con l’esperienza d’ascolto di chi si
è nutrito di musica fin da età tenerissima; e per il quale la musica è stata
cosa non marginale o episodica ma sostanziale diletto, gioia, fascinazione.
La canzone che sto ora ascoltando
mentre, correndo la Panoramica sud-nord, gli occhi sono presi, e come
soggiogati, dalla visione numinosa e lucente dello Stretto, è “Coimbra”. Il
primo ascolto non basta, il tumulto – emozione, felicità, un pizzico di strazio
– è troppo grande perché pensi a privarmi di un piacere così intenso e a
portata di mano.
Mi piace tentarne una descrizione.
La voce pare inerpicarsi e slanciarsi sui vertici, su su per le cime per poi, con
falcata discesa verticale, inabissarsi a valle. E provo piacere a chiarirmi al
meglio anche la struttura.
Dapprima è un prologo appassionato che,
in quanto tale, sai che non si esaurirà in se stesso ed è preparazione ad
altro, d’altro. Avverti che si stanno gettando le basi sonore di qualcosa di
grande, di magnifico, di liberatorio. Questo qualcosa poggia proprio su una pietra
angolare, una parola misteriosa, “Coimbra”, termine e insieme principio di un
canto a voce piena: flessuosa e dolente. Lasciandomi scivolare in fantasiose
interconnessioni mentali ed emozionali accarezzo, per un surplus di commozione,
l’esplosione gaudiosa dell’amore paterno nella sublime pagina del figlio
prodigo o, forse meglio, del ‘padre prodigo’. Quel padre che, scorto in
lontananza il figlio che ritorna a casa, viene colpito alle viscere (questo il
senso del greco ἐσπλαγχνόσθη):
viscere di gioia, di interminabile attesa, pregustamento di insostenibili
felicità.
E mi rivedo quattordicenne sostare
sulla scalinata da dove negli anni cinquanta, i primissimi cinquanta, si
accedeva (si accede) al liceo Maurolico. Una scalinata monumentale che coi suoi
due bracci sembrava, e sembra, disponibile all’accoglienza, un po’ – mi si
passi l’azzardo – come il colonnato del Bernini a Roma.
Un compagno di classe, Vittorio, dalla
contagiosa comunicativa napoletana, fischiettava con suprema agilità melodica un
motivetto da cui pareva trarre particolare godimento e soddisfazione. Si
trattava di… Coimbra.
Quant’acqua da allora sotto i
ponti, quanta storia, quante storie. La diga, a questo punto, dopo un sinistro
scricchiolio, cede di schianto: si aprono le cateratte. E un pianto tutto mi
avvolge: forte e sommesso, di struggente tenerezza.
P.S. Rileggendomi, mi accorgo che
non ho detto una parola, che sia una, sul significato della canzone. Il fatto è
che delle parole ho colto quello che i linguisti chiamano il significante,
l’altra faccia della medaglia essendomi preclusa. Di Coimbra ignoravo allora
che fosse una città del Portogallo, l’Atene del Portogallo. E allora? Può una
città suscitare, come persona viva, una tale passione interpretativa? Non so e
non mi pare il caso di approfondire, anche se so di parecchie città fatte
oggetto di amoroso canto. Fondamentale però mi sembra che l’onda musicale era
per me, ieri e oggi, la prima e unica attrattiva. A distanza di sessant’anni
quel caldo, dolente flusso sonoro mi ha, per un attimo eterno, invaso le
viscere. Restituendo me a me stesso e riaffidandomi al feroce amore della vita.
Domenico
Franciò
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