Se per ipotesi mi
fosse stato chiesto tempo fa a bruciapelo, e preteso una risposta immediata, su
quale gesto tra i tanti compiuti da papa Giovanni Paolo II fosse da considerare
il più strepitosamente magnanimo e al tempo stesso originato da quell’agape senza la quale Paolo di Tarso
proclamava con impeto che ogni altra virtù sarebbe stata un vero nulla, un
cembalo vuoto, avrei avuto qualche perplessità, non mi sarei sentito di dare
risposta pronta e sicura. Ora non più. Dopo aver letto “Per curiosità” di Cesare
Segre non avrei un attimo di esitazione: il gesto più grande compiuto da papa Wojtyla
è l’incontro di riconciliazione col rabbino Elio Toaff avvenuto nella sinagoga
di Roma il 13 aprile 1986. L’evento è considerato in tutta la sua portata
storica da uno studioso di rango, Cesare Segre, appunto, un piemontese di
origine ebraica. Nelle sue parole vibra commossa ammirazione per il coraggio
inaudito di questo papa che ha fatto quello che nessun altro, prima di lui,
aveva osato: rompere il muro di odio di duemila anni di cristianesimo nel
riconoscimento degli ebrei come “i fratelli maggiori dei cristiani”.
La gioia
dell’avvenuta riconciliazione non toglie però all’autore la immedicabile,
struggente amarezza di come si sia potuto, per così lungo tempo, perpetrare una
persecuzione così iniqua verso sparute minoranze di dispersi, disarmate e
inoffensive, in contrasto stridente col messaggio di Gesù.
Abbiamo messo in
contatto il lettore con uno dei capitoli più intensi, accorati, drammatici di
un libro in cui l’insistenza sulla condizione ebraica è sottesa a tutto, come
la colonna sonora di un film.
Che libro è
questo? Ci soccorre lo stesso autore che lo ha sottotitolato «una specie di
autobiografia». Ed è lo stesso Segre che definisce il suo lavoro «prova tra la
memorialistica e narrativa», parando davanti l’aggettivo ‘avventata’ per
avvertire, con un pizzico di civetteria autoironica, del rischio che si corre
in questo genere di operazioni letterarie. E altrove spiega anche le ragioni
del titolo del libro, il motivo ispiratore che dà unità e rende compatto il
tutto. Curiosità, dunque, ma una curiosità naturalmente lontanissima dal senso
volgare, restrittivo, pettegolo della parola. È la curiositas conoscitiva di uno studioso incapace, in forza di un interno
dinamismo sollecitante, di assestarsi su posizioni acquisite, su allori
raggiunti; ma che, mosso dall’amore del sapere, va insaziabilmente alla ricerca
di nuove frontiere, di avventure intellettuali, perfettamente consapevole che
non si appagherà fino all’estremo della vita del già acquisito perché al
saggio, anche con un piede sull’orlo della tomba, piace usare del suo tempo per
apprendere e imparare sempre qualcosa di nuovo. Segre, dunque, dal luogo della
sua specializzazione iniziale (filologia romanza), avido di nuove esperienze
speculative, si fa strutturalista, semiologo, critico militante. Ed è la stessa
curiosità che lo ha spinto al recupero memoriale (egli dice ‘mnemonico’). L’autore
non si nasconde che un’opera del genere può nascere solo da un certo
esibizionismo, dall’alfieriano “amore di se medesimo”, dalla voglia insomma di
dire di se stesso, ricercando un equilibrio tra desiderio di confessione e
voglia di tenere solo per sé i pensieri più segreti. Non sempre c’è riuscito e
ne ha vivo rammarico.
L’autore che
prima di questo libro aveva familiare solo il linguaggio critico si è trovato
ora, settantenne e per la prima volta, a sperimentare il linguaggio narrativo o
evocativo e ne ha constatato la notevole distanza. La soluzione espressiva da
lui adottata non è quella classica che ricorre alla terza o alla prima persona:
egli assume una certa varietà di prospettive formali, allo scopo di evitare
sazietà al lettore. Quando vuole essere più diretto parla in prima persona, ma,
ben sapendo però come “le moi est haïssable”, ama variare con la terza persona,
il massimo formale del distacco oggettivo (Senofonte e Cesare docent); tuttavia
la prospettiva cambia ancora con l’inscenare in forma d’intervista perfino un
dialogo tra un personaggio simbolo (Tristano) e un amico; il tutto sempre al
fine di “evitare l’ipertrofia dell’io”.
Il libro mette
insieme una serie di flash, di momenti importanti che abbiano una certa
“potenzialità didattica”. All’autore piace chiarirsi con la parola di Alfieri:
«Se non avrò il coraggio o l’indiscrezione di dir di me tutto il vero, non avrò
certamente la viltà di dir cosa che vera non sia».
La prima parte, grosso modo, può far pensare a quel che i tedeschi chiamano Bildungsroman.
E dunque viene rievocata la formazione ricevuta, le prime fondanti esperienze
di vita: l’insegnamento elementare di una maestra vicina alla pensione che
«faceva lezione con scrupolo ma non ispirava entusiasmo»; un forte sentimento
di avversione alla caccia e a qualunque offesa agli animali da quando gli muore
tra le mani un cardellino da lui colpito col flobert di un amico; l’essere
stato colto in flagranza di reato da una zia mentre masticava «goduriosamente»
il cioccolatino rubato col connesso aspro senso di vergogna che non lo lascerà
più. E poi il senso di incertezza sul proprio avvenire professionale,
l’incontro positivo con un insegnante di latino, don Biagio Fissore, un «prete
assolutamente privo di unzione e traboccante di bontà (direi santità, se
potessi giudicare io)»; il momento drammatico della paura in seguito alla
proclamazione del Manifesto repubblichino che dichiarava gli ebrei “stranieri”
e “appartenenti a nazionalità nemica”, l’aiuto concreto di don Biagio che «la
sua fede in Dio la mostrava con le opere mai con le parole» e che si dà molto
da fare per salvare tutta la famiglia; e ancora, a seguire, esperienze di
carattere intellettuale e culturale come l’insoddisfazione per la critica
desanctisiana, troppo incentrata sui sentimenti, che lo porterà a vagheggiare
una critica di taglio più asciutto, oggettivo; «la lettura disperata dei
Vangeli» che gli fa osservare lo sforzo degli evangelisti a mostrare che Gesù
aveva corrisposto davvero alle profezie messianiche; la impressione di aver
vissuto il dramma ebraico e quindi di essere stato anche lui «rinchiuso in un
vagone piombato, di essere sceso alla pensilina del Lager fra urla e spintoni,
di aver attraversato il fatidico cancello, di essere stato selezionato per il
gas e di essermi avviato rassegnatamente verso la morte». La evocazione degli
orrori nazisti si conclude con una pagina di un livido effetto drammatico:
prima un elenco asciutto, quasi a rullo di tamburo, di uomini e donne uccisi ad
Auschwitz e, a seguire, una allocuzione rabbiosa, disperata, accusatrice alla
terra e ai cieli che hanno assistito indifferenti al dispiegarsi del male. Un’impressionante
esplosione lirica che richiama la forza drammatica di certi salmi: «Non una
nuvola ha coperto il vostro vile azzurro, / che come sempre mostrava il suo
falso splendore; / il sole, rosso come un carnefice feroce ha continuato il suo
corso; la luna, come una vecchia puttana, come una peccatrice, è uscita di
notte a passeggiare, / e le stelle ammiccavano luride come occhi di topi». E
ancora: il ricordo dei reduci che si facevano una colpa dell’essere
sopravvissuti all’inferno, del non essere morti insieme agli altri, quasi fossero
stati loro ad averli abbandonati e consegnati ai carnefici: il dolore,
riaprendosi, superava in alcuni la soglia della sopportabilità forzandoli al
suicidio; l’esperienza vissuta col pensiero dall’autore di avere attraversato,
passo dopo passo, dettaglio dopo dettaglio, quella tragica esperienza di morte;
l’indignazione sarcastica verso i revisionisti che vorrebbero gettare una
coltre di silenzio su tutto quell’orrore e coprirlo definitivamente; gli incubi
notturni che non consentono il ristoro del sonno affollandolo di fantasmi implacabili.
Il libro trova infine
una svolta, un percorso più quieto e sereno quando rifà il cursus honorum,
l’itinerario che lo porterà alla cattedra universitaria e ne farà uno degli
studiosi più prestigiosi. Così, sul filo della memoria, sfilano le figure di
studiosi che sono stati determinanti sulla sua vita. Lo zio Santorre
Debenedetti, che l’iniziò all’amore per la filologia inoculandogliene il virus e
verso il quale continua a nutrire affettuosissima gratitudine. Decisivo l’incontro
col grande linguista Benvenuto Terracini. Che affascinava col suo
personalissimo metodo seminariale, in forza del quale il sapere non viene
scodellato ex cathedra, ma è frutto
di una ricerca dinamica, di un amoroso confronto tra maestro e discepoli che interrogano
e s’interrogano su un testo con ampia libertà d’intervento e di proposta da parte
di tutti.
Terracini, oltre
che maestro di scienza linguistica, fu per il Nostro maestro di vita: «la sua
dirittura e il suo fortissimo senso della giustizia convivevano con una bontà
che mi pare incomparabile». Segue un gustoso ricordo del poeta Montale di cui
sono spigolati gli umori bizzarri e balzani attraverso arguti aneddoti che ce
ne fanno conoscere lati insospettati. Tenero ricordo è quello di Lore
Terracini, nipote di Benvenuto. La sua intelligenza «era luminosa, la sua
capacità di riassumere una questione, magari scherzosamente, inarrivabile», la
sua bontà «era così schietta da parere persino brusca: i cincischiamenti e le
perifrasi erano esclusi dal linguaggio di Lore».
Poi, il ricordo
tenerissimo del padre, la persona che amava di più in assoluto, morto
prematuramente all’improvviso, un dolore così cupo per «una morte che mi pare
sempre di ieri». E ancora un ritratto dettato da una grande ammirazione e da
impeto affettivo, quello di Raffaele Mattioli che lo affascinava per «la
capacità di parlare, razionalmente, di letteratura come di un’attività
all’interno delle altre attività umane, senza le leziosaggini del letterato
puro». E l’amicizia difficile col grande Contini, da lui sempre venerato ma
saltuariamente frequentato a protezione e salvaguardia del proprio equilibrio
nervoso.
Di osservazioni,
punti di vista, contestazioni non vi è certo penuria.
Intanto potremo
condividere l’opinione che i dislivelli culturali siano ancora più gravi di
quelli sociali perché non bastano a correggerli provvedimenti sia pure
generosi. I “poco acculturati” sono in uno stato d’inferiorità quando non siano
aiutati a scoprire “i piaceri intellettuali”, a legare limpidamente i
ragionamenti. Verità – osserviamo noi – che don Milani aveva già intuito. Con
questa accentuazione: che l’opzione culturale è in lui assolutamente
prioritaria per ottenere il cambiamento sociale. La cultura, pensava don
Milani, avrà una sicura ricaduta nel sociale e nel politico. Solo in un secondo
tempo verrà presa in considerazione la dimensione religiosa: senza un minimo di
cultura il discorso religioso resta vago, nebuloso e, al limite, superstizioso.
Il degrado dei
quotidiani viene addebitato alla sudditanza rispetto alla televisione, al
sacrificio della parola all’immagine, soprattutto alla «rinuncia a opinioni
nette, sostituite da un accostamento chiaroscurale tra punti di vista opposti,
che suggerisce una mistificante filosofia della via di mezzo, e invita a
rinunciare ai concetti di vero e giusto».
La filologia è
identificata, con magnifica intuizione, con la nostra stessa attività
razionale. Vale a dire che c’è filologia in qualsiasi settore di attività
intellettuale: fanno filologia gli storici che valutano documenti o
dichiarazioni o statistiche, fa filologia il giudice che confronta deposizioni,
intercettazioni, rapporti polizieschi. E gli esempi possono andare all’infinito.
La filologia non è cosa arida e può anche andare d’accordo col plaisir du texte; il lavoro filologico
può non essere estraneo alla scoperta e alla delibazione della bellezza, magari
quando questa stia rinchiusa in un angolino e voglia / debba essere snidata. A
differenza del lavoro filologico che è distensivo, quello critico «ti prende
più totalmente, ti sfibra, ti toglie il sonno».
Sulla Resistenza
l’autore ha parole d’entusiasmo: «è stato un fenomeno eccezionale per un paese
che le guerre le ha sempre subíte, e vi ha preso parte di malavoglia». L’iniziativa,
a volte anche eroica dei partigiani, ricevette la solidarietà della popolazione
che in essi si riconosceva.
Altro punto di
amara riflessione riguarda la libertà di espressione che il Nostro vede
restringersi a poco a poco e la minaccia di una dittatura diversa,
“invisibile”: affidata alla potenza pervasiva e invasiva dei mass media, una
dittatura tutta fondata sulla persuasione occulta.
Nella parte
finale del libro appaiono temi più intimi, confessioni personali e, in senso
lato, filosofiche. L’autore confessa di trovare molto difficile credere a un
aldilà individuale. Se è vero che la vecchiaia non nutre la speranza è però
anche vero che libri, musica, quadri possono allietare la sua condizione.
Facendo come un bilancio della sua vita, l’autore spera di «non essere stato
completamente inutile» e di avere aiutato qualcuno «a essere miglior inquilino
di questo mondo». Si rammarica che le troppe curiosità e il divertimento
intellettuale lo hanno dissipato e sottoposto ai rischi di un certo
dilettantismo. L’idea che si è fatto conclusivamente degli uomini non brilla
certo per positività, anzi il prevalere di una valutazione scettica e
pessimistica delinea un quadro quasi apocalittico. Una forza irrefrenabile «porta
ogni uomo a imporsi sugli altri, a sfruttarli o eliminarli». La terra per colpa
dell’uomo sta andando alla deriva: è inquinata fino al midollo, non riesce a
smaltire i suoi rifiuti: «noi viviamo tra la spazzatura, in attesa di essere
divorati dalla stessa spazzatura».
Altra minaccia è
la pressione di miliardi di uomini miserabili e denutriti contro una minoranza
pasciuta e sprecona. La pressione può diventare invasione e le invasioni
barbariche sembreranno al confronto ben misera cosa.
L’autore,
lasciando la battuta risolutiva al personaggio simbolo Tristano che preconizza
un futuro del mondo radicato sulla pace perfetta, afferma che «i governanti
saranno saggi e gli uomini pervasi dalla passione della giustizia, accesi di
amore reciproco, votati alla bellezza, alle arti, al rispetto della natura».
Uno sberleffo di chiara matrice leopardiana dà un calcione definitivo alle
“magnifiche sorti e progressive”, chiude lo sguardo gettato sul futuro.
Mi pare di potere
affermare in conclusione che il libro di Segre è un libro singolare: deve
essere costato all’autore tanto sforzo e sofferenza, e gli ha chiesto molto,
molto coraggio per dire certe cose. Pur mirando – di massima – ad una lingua ‘continua’,
l’autore persegue un disegno vario, mosso, qualche volta spiazzante. La gamma
dei sentimenti vi è tutta rappresentata. A parte l’amore erotico, cui si
accenna soltanto di striscio, forse per una sorta di pudore, tutti gli altri
sono vivacemente presenti: l’amicizia, la gratitudine, la bellezza,
l’indignazione, l’ironia, il sarcasmo. Se rimane nel lettore l’impressione di
una certa disuguaglianza, di una certa oscillazione pendolare è perché, credo,
così ha voluto l’autore. Il quale rifuggiva programmaticamente da un prodotto
ben pettinato, educato, lisciato ed era per un libro dove la vita pulsasse
nella sua febbrile, contraddittoria, indomabile frammentazione.
L’opera è una miniera
di osservazioni, di riflessioni: alcune riguardano gli specialisti del settore,
altre riguardano tutti. Proprio tutti.
Il linguaggio talora
è aspro e, diciamolo pure, ha qualcosa di sgradevole che deriva da franchezza
caratteriale: al tempo stesso è di una dolcezza, di una delicatezza che
s’insinua e ti prende.
Domenico
Franciò
[Questo breve ‘saggio’ è stato
scritto a ridosso della pubblicazione del libro di Segre (1999), e rimasto nei
cassetti.
In occasione della recentissima
scomparsa dell’illustre studioso, e col solo desiderio di onorarne la memoria, s’è
pensato bene di riprenderlo tra le mani, ripulirlo da qualche sbavatura o
imprecisione e di proporlo all’attenzione dei lettori di questo blog.]
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