sabato 7 gennaio 2017

In morte di Tullio De Mauro

«Il Dio che atterra e suscita, / che affanna e che consola»
Alessandro Manzoni, Il cinque maggio


La morte improvvisa di Tullio De Mauro (Torre Annunziata, 1932) mi ha colto alla sprovvista procurandomi un misto di dolore e di tristezza. A lui devo molto. Devo il riconoscimento del valore letterario dell’opera mia prima, quella “Religione del bar” che ebbe tanti consensi in alto, in medio, in basso loco, e che mi fece non soltanto conoscere ma attirò sulla mia persona oltre che ammirazione, affetto e schiette amicizie coi nomi più illustri della cultura italiana. La morte l’ha colto nel pieno della sua attività di divulgazione e di ricerca. Egli è stato, insieme al suo amico e discepolo Raffaele Simone, l’ideatore e il costruttore di una scuola democratica. Grande ammiratore di don Lorenzo Milani, di cui si considerava discepolo, egli ne fu il pioniere e il realizzatore: una scuola che, partendo dal basso, mettesse i cittadini, così come vuole la Costituzione, allo stesso livello di partenza in modo da poter raggiungere, assecondando ciascuno il proprio talento e le proprie qualità, i gradi più alti e più ambiti. De Mauro è stato anche ministro della Pubblica Istruzione, come furono, a loro tempo, Croce e Gentile. Forse, da questa carica istituzionale, s’aspettava qualcosa di più di quel che gli fu dato ottenere; forse, ebbe più amarezze, delusioni e dolori che non soddisfazioni. Ma era un uomo coraggioso, operoso, fattivo, cui le difficoltà moltiplicano le forze anziché smorzarle, avvilirle e costringerlo alla resa incondizionata. Al tempo della pubblicazione della mia Religione, m’incoraggiò a collaborare con l’inserto dell’Unità diretto da Bobo Staino. Io, che allora ero di scrittura, a dir poco, pachidermica, non me la sentii, e feci passare l’autobus senza afferrarlo a volo e neppure senza tentare. Ma, tutto sommato, e a cose avvenute, fatto un sintetico e velocissimo bilancio, non posso che essere contento. Soddisfatto soprattutto di una cosa: che non ho mai scritto, in tutta la mia vita, un solo rigo, fosse pure un bigliettino di auguri, che non sia scaturito da un’esigenza profondamente sentita.
A Silvana Ferreri, sua allieva e moglie, al figlio Giovanni il mio dolente rammarico, il mio cordoglio.
Domenico Franciò

P.S. Mi piace riascoltare mentalmente la sua voce con la tipica cadenza esplicativa di chi vuole gettar luce su tutto e per cui il dettaglio è il primum da non trascurare.
Non era certo mia intenzione dar fondo alla attività febbrile, instancabile, generosissima di Tullio De Mauro. Altri, di me più competenti, avrà questo compito, gradito quanto gravoso. Da far tremare le vene e i polsi.