venerdì 29 dicembre 2017

Dispensatore d’amore



«O mente umana al proprio ben rubella! / Vede tanta sua pace e non la cura, / e stima porto ov’ha flutto e procella». Celio Magno, Non fuggir, vago augello

Dispensatore d’amore: ecco l’idea che mi sorride, qualcosa che, sorgendo dall’interno dell’anima, mi dà gioia immensa, fino a toccar felicità. Gesù, venendo a questo mondo, negli anni in cui ha dato vita alla sua vocazione, che cosa ha fatto se non sanare, medicare, addolcire le pene e le sofferenze infinite degli uomini: ha confortato, consolato, incoraggiato, asciugato lacrime, donato il sorriso, ridato la gioia di vivere. Un Dio che assume forma umana, che s’incarna in un corpo, un Dio padre che non guarda distaccato ma che partecipa del figlio nella sofferenza e nella gioia. Farsi ricettacolo d’amore (receptaculum, parola cara a don Chizzini nelle sue impetuose e trascinanti parole dall’altare) per poi affidarlo, questo amore, al fiume della vita, affluenti e subaffluenti compresi. Gesù, “il figlio dell’uomo” come amava autodefinirsi, che, per sottrarsi al male d’origine e vincerlo definitivamente, si è dato inerme alla crudeltà, alla malvagità, alla spietatezza umana fino al sacrificio del Golgota.
C’è una retorica del Natale, a non dire della sua disinibita sfrontata sfacciata spudorata commercializzazione, che vede e vuole gli uomini farsi, da un momento all’altro per magia, più buoni, più disposti al perdono: i presepi, le luci degli alberi che s’accendono e spengono alternativamente, i rituali cerimoniosi. Gli zampognari, con le loro ciaramelle (oh, Pascoli messinese!) venivano giù, nella infanzia felice, nelle case a suonare con un suono che usciva dai panciuti otri di cuoio davanti ai presepi: un clima, un’atmosfera che puntualmente si rinnovava. Oggi si continua ad essere sotto tiro della minaccia nucleare e di fanatici irresponsabili che, torcendo il collo alla loro religione, seminano morti stragi massacri.
Fortuna che abbiamo un papa che non si tappa gli occhi per non vedere e le orecchie per non sentire come la famosa scimmietta, e che conosce a fondo (funditus) in tutte le sue pieghe, propaggini e ramificazioni la natura umana. Le sue parole, in qualunque circostanza, e soprattutto quando parla a braccio, incidono come il bulino la pietra e scuotono le coscienze e i cuori più incalliti, affetti da sclerocardia.
Che il natale di Cristo, che ha reciso di netto la storia in due parti asimmetriche, possa, in tutti, risvegliare speranze sopite o affievolite o dormitantes (dormicchianti), e portare sollievo respiro lenimento a chi è nel dolore, nello strazio.
Domenico Franciò

domenica 2 aprile 2017

Una confessione coraggiosa




«L’uomo è condannato o a consumare la gioventù senza proposito, la quale è il solo tempo di far frutto per l’età che viene, e di provvedere al proprio stato o a spenderla in procacciare godimenti a quella parte della sua vita, nella quale egli sarà più atto a godere»
(Giacomo Leopardi, Zibaldone)
 
Antonio Palmese [da http://tv.fanpage.it]
A “Ballando con le stelle”, la trasmissione televisiva condotta da Milly Carlucci, è successo qualcosa di straordinario che ha emozionato e commosso gli spettatori presenti in studio, la giuria e, senza dubbio alcuno, gli spettatori pantofolati a casa.
Un giovane aitante ha confessato un episodio agghiacciante che ha segnato in lungo e per largo la sua vita, imprimendovi una svolta decisiva. Un gruppo di bulli l’ha messo in centro e gli ha sputato ripetutamente in faccia. Il giovane rimane sconvolto, pietrificato da quel gesto di estremo disprezzo oltre che estremamente volgare. Ma, siccome dal male si può trarre il bene, quel fatto increscioso e ributtante, così disumano, così contrario al rispetto dovuto ad ogni essere umano, che, forse, per un altro più fragile e meno attrezzato spiritualmente avrebbe avuto il costo di una frustrazione eterna, lui l’ha capovolto e ne ha tratto la forza necessaria a costruire la sua personalità, come dire la sua identità d’uomo che si colloca all’interno di una comunità civile.
I voti altissimi sono stati la prova lampante che la coraggiosa confessione aveva turbato emozionato commosso l’intera giuria sicché sulla motivazione tecnica della performance ha prevalso e fatto aggio una ratio, una ragione squisitamente umana. Ecco allora come una trasmissione, improntata e programmata per il facile divertimento, si riscatta, e manda un ‘messaggio’ che va al di là della mera valutazione specifica. Il giovane, faccia pulita, occhi limpidi e sensibili, ha conquistato tutti. Può essere questo l’inizio di una inversione di tendenza. Male non è certo abbinare al divertimento e alla gioia degli occhi per tanta esibita bellezza questa lezione di pulizia morale, una speranza di condivisi sentimenti e di valori ancor vivi e autentici.
Domenico Franciò

martedì 28 marzo 2017

Un grande studioso alle prese col massimo studioso della storia umana

Socrate
Il modo con cui Nicola Abbagnano tratta la figura di Socrate non è asettico, oggettivo, una maniera per distanziare se stessi e l’oggetto della trattazione. Oserei dire che lo storico dà tutto se stesso a delineare il giusto profilo dell’ateniese, quasi per timore che interpretazioni inintelligenti, fasulle, false e svianti rimpiccioliscano l’importanza dell’influsso che il filosofo ha avuto, lungo i secoli, nella storia occidentale. Quello che siamo e quel che vogliamo essere parte da lì. Là è la scaturigine della nostra Kultur, di quel che abbiamo voluto essere e diventare. Nulla dell’aridità intellettuale che gli è stata imputata da un Nietzsche. Per lo studioso pugliese Socrate è, sic et simpliciter, la filosofia, nella sua ragione d’essere e motivazione essenziale: amore per il sapere, come denuncia chiaramente l’etimo (φιλοσοφία è un amare la σοφία, la sapienza, è una tensione non esaurita né esauribile verso di essa, che dura quanto dura la vita umana). Socrate era uomo di forti passioni, di grande coraggio intellettuale e morale. Non guardava al cielo, i fenomeni naturali che altri attiravano, lo lasciavano del tutto ἀδιάφορος, indifferente. Egli è l’inventore del dialogo, e della dialogicità, come l’attività insostituibile su cui si fonda una civile convivenza. Socrate ha insegnato, senza parere e senza impancarsi a dotto e sapiente come facevano i Sofisti, a non smettere mai la ricerca del sapere, che è tutt’uno con la virtù. Più sai, più conosci, più t’accorgi di non conoscere, più tocchi con mano la tua ignoranza. Questa consapevolezza induce un habitus di umiltà, ti costringe a non sopravvalutarti, e a riconoscere, in particolare, i tuoi limiti. Il celeberrimo monito delfico (γνῶθι σαυτόν, gnosce te ipsum) è un invito a scansare la boria, a non riempirsi d’arie. Questa è sempre mala consigliera e, nella storia dell’uomo, è stata sempre apportatrice di sventure. I presuntuosi, quelli che presumono di sapere senza sapere, sono la peggiore genia dell’umanità, un cancro inestirpato e, forse, inestirpabile, e incurabile, nel quale, una volta incappati, non si vede come se ne possa uscire. Possono essere assomigliabili alla rana di fedriana memoria che, presa d’invidia per la magnificenza del bue, si dà dissennatamente a gozzovigliare aria fino al botto finale rimanendo stinnicchiata a pancia squarciata.
Ecco come uno studioso, quando ha fegato, cuore e mente, tratta il suo argomento. Se ne innamora e te ne innamora. Facessero propria gli insegnanti d’oggi questa lezione. Non ne trarrebbe profitto la scuola e, tramite essa, l’intera società?
Domenico Franciò

sabato 7 gennaio 2017

In morte di Tullio De Mauro

«Il Dio che atterra e suscita, / che affanna e che consola»
Alessandro Manzoni, Il cinque maggio


La morte improvvisa di Tullio De Mauro (Torre Annunziata, 1932) mi ha colto alla sprovvista procurandomi un misto di dolore e di tristezza. A lui devo molto. Devo il riconoscimento del valore letterario dell’opera mia prima, quella “Religione del bar” che ebbe tanti consensi in alto, in medio, in basso loco, e che mi fece non soltanto conoscere ma attirò sulla mia persona oltre che ammirazione, affetto e schiette amicizie coi nomi più illustri della cultura italiana. La morte l’ha colto nel pieno della sua attività di divulgazione e di ricerca. Egli è stato, insieme al suo amico e discepolo Raffaele Simone, l’ideatore e il costruttore di una scuola democratica. Grande ammiratore di don Lorenzo Milani, di cui si considerava discepolo, egli ne fu il pioniere e il realizzatore: una scuola che, partendo dal basso, mettesse i cittadini, così come vuole la Costituzione, allo stesso livello di partenza in modo da poter raggiungere, assecondando ciascuno il proprio talento e le proprie qualità, i gradi più alti e più ambiti. De Mauro è stato anche ministro della Pubblica Istruzione, come furono, a loro tempo, Croce e Gentile. Forse, da questa carica istituzionale, s’aspettava qualcosa di più di quel che gli fu dato ottenere; forse, ebbe più amarezze, delusioni e dolori che non soddisfazioni. Ma era un uomo coraggioso, operoso, fattivo, cui le difficoltà moltiplicano le forze anziché smorzarle, avvilirle e costringerlo alla resa incondizionata. Al tempo della pubblicazione della mia Religione, m’incoraggiò a collaborare con l’inserto dell’Unità diretto da Bobo Staino. Io, che allora ero di scrittura, a dir poco, pachidermica, non me la sentii, e feci passare l’autobus senza afferrarlo a volo e neppure senza tentare. Ma, tutto sommato, e a cose avvenute, fatto un sintetico e velocissimo bilancio, non posso che essere contento. Soddisfatto soprattutto di una cosa: che non ho mai scritto, in tutta la mia vita, un solo rigo, fosse pure un bigliettino di auguri, che non sia scaturito da un’esigenza profondamente sentita.
A Silvana Ferreri, sua allieva e moglie, al figlio Giovanni il mio dolente rammarico, il mio cordoglio.
Domenico Franciò

P.S. Mi piace riascoltare mentalmente la sua voce con la tipica cadenza esplicativa di chi vuole gettar luce su tutto e per cui il dettaglio è il primum da non trascurare.
Non era certo mia intenzione dar fondo alla attività febbrile, instancabile, generosissima di Tullio De Mauro. Altri, di me più competenti, avrà questo compito, gradito quanto gravoso. Da far tremare le vene e i polsi.