«Il
Dio che atterra e suscita, / che affanna e che consola»
Alessandro Manzoni, Il cinque maggio
La morte
improvvisa di Tullio De Mauro (Torre Annunziata, 1932) mi ha colto alla
sprovvista procurandomi un misto di dolore e di tristezza. A lui devo molto.
Devo il riconoscimento del valore letterario dell’opera mia prima, quella
“Religione del bar” che ebbe tanti consensi in alto, in medio, in basso loco, e
che mi fece non soltanto conoscere ma attirò sulla mia persona oltre che
ammirazione, affetto e schiette amicizie coi nomi più illustri della cultura
italiana. La morte l’ha colto nel pieno della sua attività di divulgazione e di
ricerca. Egli è stato, insieme al suo amico e discepolo Raffaele Simone,
l’ideatore e il costruttore di una scuola democratica. Grande ammiratore di don
Lorenzo Milani, di cui si considerava discepolo, egli ne fu il pioniere e il
realizzatore: una scuola che, partendo dal basso, mettesse i cittadini, così
come vuole la Costituzione, allo stesso livello di partenza in modo da poter
raggiungere, assecondando ciascuno il proprio talento e le proprie qualità, i
gradi più alti e più ambiti. De Mauro è stato anche ministro della Pubblica
Istruzione, come furono, a loro tempo, Croce e Gentile. Forse, da questa carica
istituzionale, s’aspettava qualcosa di più di quel che gli fu dato ottenere;
forse, ebbe più amarezze, delusioni e dolori che non soddisfazioni. Ma era un
uomo coraggioso, operoso, fattivo, cui le difficoltà moltiplicano le forze
anziché smorzarle, avvilirle e costringerlo alla resa incondizionata. Al tempo
della pubblicazione della mia Religione, m’incoraggiò a collaborare con
l’inserto dell’Unità diretto da Bobo Staino. Io, che allora ero di scrittura, a
dir poco, pachidermica, non me la sentii, e feci passare l’autobus senza
afferrarlo a volo e neppure senza tentare. Ma, tutto sommato, e a cose
avvenute, fatto un sintetico e velocissimo bilancio, non posso che essere
contento. Soddisfatto soprattutto di una cosa: che non ho mai scritto, in tutta
la mia vita, un solo rigo, fosse pure un bigliettino di auguri, che non sia
scaturito da un’esigenza profondamente sentita.
A Silvana
Ferreri, sua allieva e moglie, al figlio Giovanni il mio dolente rammarico, il
mio cordoglio.
Domenico
Franciò
P.S. Mi piace riascoltare
mentalmente la sua voce con la tipica cadenza esplicativa di chi vuole gettar
luce su tutto e per cui il dettaglio è il primum da non trascurare.
Non era certo mia intenzione dar
fondo alla attività febbrile, instancabile, generosissima di Tullio De Mauro.
Altri, di me più competenti, avrà questo compito, gradito quanto gravoso. Da
far tremare le vene e i polsi.
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