Non era difficile pensare ad uno Scalfari diverso,
e che aspetti inediti della sua personalità sarebbero venuti fuori. Così è
stato. L’attacco del primo capitolo, con quel pianto infinitamente accorato e
inconsolabile del bambino, che divide con la madre lo strazio di dovere
lasciare l’amata casa, non poteva essere di più ispirata bellezza, di più
struggente impatto emotivo.
Questa autobiografia, intessuta di privato e di
pubblico, di personale e di sociale, non sembra tanto folta di episodi, di
vicende, quanto piuttosto di pensieri e di riflessioni.
Il viaggio della memoria muove da un evento
cruciale come il fascismo: la cui struttura di “cartapesta” solo più tardi si
svelerà, e non certo all’adolescenza dell’autore, che come tanti suoi coetanei
subì in pieno la seduzione di quel tragicomico apparato. E giacché la vita di
un intellettuale si costruisce soprattutto con quel che si legge, ecco che il
ricordo riattiva e ridefinisce tutti quei pensatori, filosofi e poeti che hanno
offerto la materia prima alla costruzione dell’uomo. Decisivi si sono rivelati
in tal senso filosofi come Descartes e Nietzsche: l’uno per l’argomentare
chiaro e distinto, l’altro per la spregiudicatezza intellettuale; e poeti come
Montale, “l’innamoramento” di tutta una vita.
I libri sono da sempre stati pane quotidiano, per opera
di un padre che seppe travasargli amore per la letteratura, declamando
D’Annunzio e Leopardi e leggendogli, pagina per pagina, quando ancora a scuola
non si faceva, il romanzo del Manzoni. Una tenera, si direbbe oraziana,
gratitudine è rivolta a quello “scapestrato” di papà, così puro come lo sono «tutte
le forme autentiche, non corrotto dall’ipocrisia e dall’avarizia di sé».
Ragionando di politica, è escluso categoricamente
che essa operi nell’ambito della morale: ci può essere tutt’al più qualche contatto,
e men che superficiale. La politica non è un agire diretto – così un giorno
apprese da Ugo La Malfa
– ma un gioco di sponda, come nel biliardo: allo scopo, al successo si arriva
solo per linee indirette.
Per caratterizzare la sua esperienza di direttore,
Scalfari tira fuori un ricordo drammatico e, per certi versi, curioso. Dovendo
prendere una decisione di estrema delicatezza – pubblicare o no un documento
dei terroristi che avevano rapito un giudice – costretto a una prova di forza
tra la linea morbida e la linea dura, ma deciso a ritrovare equilibrio e
padronanza di sé, opta per una sospensione: una pausa che almeno attenui il tumulto
dei sentimenti e lo restituisca a se stesso. Va in casa d’amici, si chiude in
una stanza e, scelto l’Allegretto della Settima di Beethoven, si stende bocconi
a terra per svuotarsi l’anima «dall’angoscia che l’opprimeva». E per scegliere,
poi, senza esitazione alcuna, la soluzione giusta, quella che porterà al buon
esito della vicenda.
L’autore non ha dubbi su quale sia l’età più felice
per l’uomo: «L’infanzia è una stagione fatata. La sola di tutta una vita che
non finisce mai e t’accompagna fino all’ultimo respiro». Ma anche la vecchiaia
non è da buttare, quando non ci si faccia attanagliare dalla paura della morte
e si reagisca con l’impegno del pensiero e del lavoro. L’uomo in ogni caso non
deve tradire quello che è il proprium
della sua specie: la ricerca del senso della vita. Egli è l’unico essere al
mondo cosciente di sé, il solo che sappia di dover morire: quegli alberi, così
intensamente amati e rispettati, non sanno di ospitare sui loro rami tanta
ricchezza di creature; e queste, a loro volta, non sanno di esserne gli ospiti.
L’innocenza della pietra, del falco, della tigre, del serpente, del fiume che
straripa all’uomo è ontologicamente preclusa, negata.
Lo scrittore ha trovato da subito, per istinto o
per una sorta di felicità comunicativa, il tono giusto per parlare alla mente e
al cuore del lettore: il tono pacato di chi è capace di raccontarsi con sincerità,
senza facili compiacimenti né leziose affettazioni o finalità segrete.
Il libro può leggersi, come si usa dire, d’un
fiato, tanta ne è la scorrevolezza, anche quando vengono affrontate questioni
complesse. La scrittura, per lo più piana, ha di tanto in tanto come dei soprassalti,
delle vive accensioni. Nella parte finale, tentando una sorta di bilancio,
Scalfari afferma con energia che due cose non riuscirebbe a perdonarsi mai.
Primo, aver dato, per avarizia di sé, meno di quanto abbia ricevuto; secondo,
essere stato un prevaricatore. E se anche, in definitiva, l’autore non pare
animato dalla grande speranza cristiana, la sua adesione alla vita, pur con
tutto il penoso e il difficile che comporta, è tanta e tale che non può non
lasciare un riverbero positivo nell’animo dei suoi lettori.
Domenico Franciò
[Articolo apparso su La scintilla del 27 luglio 2008]
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