Il titolo, che
riecheggia l’esiodeo con la sostituzione di ‘parole’ a ‘opere’, suggerisce non
un’idea di contrasto ma, direi, di affinità: parole, cioè, che non sono, e non
vogliono essere, flatus vocis ma, in
senso pregnante, parole-azioni, parole-opere; con funzione dunque performativa:
incidere la dura corteccia del mondo per tentare di cambiarlo. Il sottotitolo
si riallaccia al precedente “Breviario laico”, programmato anch’esso per un
anno bisestile, ogni giorno ospitando una pagina di commento ad una frase, un
motto, un fatto, un pensiero. Quel tanto di ambiguità che potrebbe ingenerare
la frizione tra il termine ‘breviario’, di chiara marca religiosa, e la
qualifica di ‘laico’ nel senso più largo e autonomo, è superato dalla
‘confessione’ dell’autore, ecclesiastico e vescovo.
Attingendo al
suo sterminato archivio culturale ed esistenziale, Ravasi conduce un’indagine a
tutto campo sui comportamenti e sulla situazione dell’uomo d’oggi, sollecitato,
in questo scandaglio, da due forze spirituali convergenti: l’aspirazione alla
bellezza e all’armonia, e il sentimento d’amore nella sua triplice, canonica
ripartizione di eros, filia e agape. E giacché sono tempi in cui la bellezza e l’amore, l’armonia
e la pace subiscono i più duri affronti da forze politiche e sociali votate al
disordine, al servilismo, all’arroganza, all’ingiustizia, all’interesse
personale e di gruppo, ecco che al lettore è offerta la possibilità di una
pausa, di un ristoro per liberarsi da una vita dissennata, insensata e volgare,
e insieme ricercare i modi e i mezzi per elevarla a umana dignità.
In ogni pagina
ad una parte negativa è opposta una parte positiva, e propositiva. E se il male
è analizzato in tutte le sue possibili declinazioni più o meno evidenti, il
bene è d’altra parte fermamente riproposto nella sua straordinaria vitalità e varietà
di modulazioni.
Il libro si può
leggere rapidamente, fors’anche di un fiato, o addirittura a perdifiato, ma in
tal caso si andrebbe, certo, contro il presupposto strutturale dell’opera: che
prevede una lettura lenta, sorseggiata: proprio per una giusta assimilazione e
un proficuo faccia a faccia critico con le non poche vivande del succulento
banchetto.
L’intento
dell’autore si precisa fin dalle prime battute: e si tratta di un obiettivo
alto, e luminoso: la prospettiva, con l’incastro di tanti tasselli, di una vita
umana e cristiana realizzabile in pienezza e splendore. Un libro più
sapienziale che morale, che spinge a vivere con semplicità, ma a pensare, a
sentire in grande. Tutto il contrario della mediocrità, che, anteponendo come
alibi il buon senso dei ‘benpensanti’, è in realtà esplicitazione di un
atteggiamento piccolo, dimissionario, che si appaga di una palude comatosa. Del
mediocre sono denunciati i maneggi atti a erodere la dignità altrui, i giudizi
livorosi travestiti di perbenismo e di apparente equilibrio. Ma ecco come in
fine viene liquidato: «Nemico di ogni impegno, di ogni grandezza, di ogni
libertà di giudizio».
Molto vicina
alla mediocrità è la stupidità intesa non tanto, o non solo, come un deficit
intellettivo ma nel senso di una vera e propria carenza di umanità. La parola
biblica non fa sconti allo stupido: «Il sapiente sa quel che dice, lo stupido
dice quel che sa». Argomento su cui concordano fior di intellettuali ma sul
quale tuttavia può venire a taglio, per raffreddare certi entusiasmi di chi fra
noi si consideri esonerato ed esente, un’arguta riflessione di Giuseppe
Pontiggia: «La stupidità degli altri è un bersaglio fisso, la nostra la
scopriamo a poco a poco, con sorpresa inquieta e acquisizione sicura».
Sullo stato di
salute della parola, Ravasi stila questo referto: spiace quando si presenta
ingioiellata per coprire vuoti paurosi; spiace quando si fa prolissa e
predicatoria; spiace quando il nero di seppia intende occultare l’intima sua
povertà (avviene di certi teologi). A fronte di una tale crisi morale ecco
alcuni rimedi. Riscoprire le perle della cultura, della spiritualità, della
bellezza; farsi una mente aperta, un cuore largo e compassionevole, un’anima grande;
mettere alla porta senza tanti riguardi chiacchiere e verbosità; perseguire il
fremito della ricerca e dell’attesa; staccarsi dalla superbia e dal possesso; coltivare
pace e purezza interiore; ricercare una fede viva e vera accantonando una
religiosità esteriore e di parata.
Per dar vita a
questo programma di salute pubblica e privata, fisica e spirituale, individuale
e sociale, suggerirei di pensare un attimo, per rincuorarci, alle illuminanti parole
di Sant’Agostino sull’inquietudine del cuore umano (inquietum est… “è inquieto il nostro cuore finché non riposi in
Te”). Con l’aggiunta della ‘variante’, sorridente e spiritosa, proposta tanti
anni fa al nostro autore dallo scrittore francese Julien Green: «Finché si è
inquieti, si può stare tranquilli».
Domenico Franciò
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