La categoria a cui Gianfranco Ravasi, l’insigne biblista, sembra particolarmente sensibile è, a mio giudizio, la bellezza: bellezza della parola, della musica, della intelligenza, della sapienza, della religione. A voler ricercarne le radici penso non si sia tanto lontani dal vero nell’indicarle nella solida formazione classica, e nella paideia greca in particolare: lo straordinario amore per il greco antico, come lingua e come letteratura, trova più di un’occasione per manifestarsi. Ma non lo si prenda, per carità, per un esteta o estetizzante: la sua filocalia (amore del bello) è perfettamente fusa e non disgiungibile dalla formazione cristiana, portata – si sa – al massimo dei livelli. L’affermazione poi, più volte ribadita, della centralità di Gesù nella fede, al di là di certi facili e fuorvianti devozionalismi, ne fa un assertore persuasivo dell’autentico annuncio cristiano. La sua capacità di attingere a ogni letteratura, a valorizzare la sapienza ovunque sia dato trovarla (nell’Islam, nell’ebraismo, nel buddismo, oltre che – s’intende – nelle confessioni cristiane minoritarie) danno al suo cristianesimo un’apertura davvero ‘cattolica’ ed ecumenica liberandolo da ogni insidia, anche minima, di fondamentalismo. E dal sospetto di eclettismo o, peggio, di sincretismo basta a garantirlo l’amore appassionato e ardente per il Cristo.
Questo
“Breviario laico”, per struttura formale e per la somiglianza dei contenuti, si
pone sulla stessa linea dei numerosi volumi che anno dopo anno hanno radunato i
“mattutini” apparsi sul quotidiano “L’avvenire”. L’aggettivo del titolo pare
voglia abbracciare una più larga fascia di lettori da una base culturale la più
ampia e varia, comprendente scrittori, filosofi, mistici e scienziati di tutti
i tempi.
Di trasparente
intelligenza è la composizione del libro. I testi, distribuiti per ognuno dei
366 giorni di un anno bisestile, muovono, tutti, da una citazione che offra
spunto a riflettere. Il commento ai testi vuole suscitare una risonanza emotiva
o favorire un indugio meditativo, un ripensamento. Alla brevitas dello spazio corrisponde una brevitas stilistica capace di sintesi fulminee, ma senza mai dare
in secchezza o legnosità.
Il ‘moralista’
che è in Ravasi – la parola sia presa nel suo senso più nobile – scruta
dall’osservatorio dei testi prescelti l’infinita fenomenologia dei comportamenti
umani, senza mai porsi sul piedistallo di un giudizio inappellabile, e facendo
sempre intravedere, là dove il negativo prevalga, un filo di luce, una lama di
speranza. Se il libro, per sua struttura e per come indica il titolo, si offre
alla lettura a modo di breviario, ossia con la possibilità di una metodica ruminazione
giornaliera, in pratica è aperto a modalità di qualsiasi tipo: come, ad
esempio, la lettura desultoria, la lettura ‘tematica’, ed altro ancora. E, se
mi si concede, suggerirei al lettore, prima di leggere il commento dell’autore,
di provarsi a ragionare un attimo con la sua testa e domandarsi che cosa avrebbe
pensato o sentito da sé stesso. Si eviterebbe così una lettura meramente
ricettiva a vantaggio di una dinamica, interagente coi pensieri e coi sentimenti
dell’autore.
Quanto all’uso
della citazione nel corpo del commento, è facile osservare che quella decisiva
è spesso situata sul finale dell’argomentazione: con un evidente e perdurante
effetto di rinforzo, o di scoperta, che richiama la tecnica epigrammatica.
Alcuni temi sono
ricorrenti, sia che entrino direttamente nel discorso sia che si affaccino
lateralmente, in corollario. All’autore piace poco – potrebbe essere
altrimenti? – questa società frenetica, esagitata, assillata; con la testa sprofondata nell’attimo (e fin nel
detestabile attimino), che guarda solo al proprio tornaconto e a un edonismo
effimero e senza ritegno, incapace di apprezzare il buono e il bello che
s’annida nelle pieghe del quotidiano e del feriale. E vede Ravasi con lucidità
che causa non secondaria di questa dissennatezza sono i mass media, specie la
televisione, col suo carico di arroganza, intolleranza, sguaiataggine, villania.
Al negativo e al distruttivo viene però contrapposta la gioia delle piccole
cose, dell’impegno quotidiano, dei piccoli grandi gesti, la ricerca
appassionata di Dio nel silenzio e nella preghiera, il far tacere e zittire
tutti quei rumori che appannano e ottundono la nostra coscienza. E la parola soprattutto,
quella che svegli dal torpore le anime spente, increspi il mar morto
dell’abitudine, provochi un fremito (parola ricorrente) di vita, di calore.
A volte si è
presi in un giro entusiasmante. Il concetto, che aveva trovato essenziale
spiegazione, viene ribadito dalla sententia
finale con un più di efficacia. Valga un esempio. A chiusura di un bellissimo
episodio di francescana spiritualità (un frate di notte è colto dai tormenti
della fame e San Francesco fa alzare tutti… per uno spuntino fuori programma)
l’autore mette questo sigillo: «La debolezza deve essere sostenuta e sanata,
non denunciata e umiliata».
Quando la
citazione è piuttosto generica e lapidaria, come nel caso di un motto, vi si scava
al punto da trovare una immagine più pertinente e attuale. Se la felicità è dunque
equiparata per la fragilità al vetro, per Ravasi «non la si ha ma vi si è
[colta l’allusione?], vivendo con noi stessi, con la nostra dimensione più
profonda e spirituale». E, a sottolineare l’indifferenza e la noia indotte da
un certo tipo di educazione religiosa (e di predicazione), fatta di santi e
barbosi luoghi comuni, cosa c’è di meglio che piazzare in finale una micidiale
stoccata di Bruce Marshall che così infilza una coppia di mezza età incontrata
sul treno: «così indifferenti l’uno all’altra da far pensare che fossero
sposati».
Domenico Franciò
[Articolo apparso su La scintilla del
23 marzo 2008]
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