Umberto Saba,
nella sua più celebre, e “scandalosa”, poesia “A mia moglie”, afferma risoluto,
con tono che non ammette replica: la femmina «è migliore del maschio».
Un’affermazione certamente suggestiva, che, per grazia di intuito, può essere
fatta propria da ognuno.
La lunga,
interminabile, sequela animalesca – continuo paragone, tra somiglianze e dissimiglianze,
fra la femmina dell’uomo e gli altri animali «che avvicinano a Dio», non ruota
in fondo che su un punto: la capacità generativa, propria e peculiare, della
femmina dell’animale.
Il maschio getta
il seme e ne può gettare, e sperdere, quanto e più ne vuole in infiniti rivoli
e rivoletti: insemina a scialo il maschio, ma… c’è un ma. Non è un portento il
Nostro in fatto di memoria e, in più, inclina alla torpida non curanza.
Genitore di mille figli, padre di nessuno.
Non così la
femmina. Quel seme ricevuto, lei se lo coltiva dentro il suo corpo caldo e
voluttuoso, lo elabora in perfetto ossequio a legge di natura (iuxta legem naturae), e, con speranza e
tenera trepidazione, attende. Spetta a lei, alla femmina d’uomo, far dono della
vita: e con tale travaglio di dolore che termini di confronto, o di riscontro,
non si rilevano in nessun’altra umana sofferenza.
I greci antichi
– sempre loro – dissero tale verità con le parole orgogliose e sprezzanti di
Medea allorché asserisce, e non teme affatto smentita, che le ferite sofferte e
inferte reciprocamente in battaglia dai combattenti sono davvero misera cosa,
un vero e proprio nulla.
La donna,
dunque, proprio per questa sua aderenza ai cicli lunari e alla terra, è
portatrice di una legge scolpitale dentro dal Creatore; e siccome, almeno a luce
di ragione, il Creatore non può volere il male della sua creatura, la femmina
umana è la persona più idonea alla costruzione del bene.
Questa
spiegazione – concludiamo – vorrebbe, senza prosopopea e senza hybris, dare ragione di una realtà che
solo un grande poeta, con fulminea sintesi intuitiva, poteva scolpire in una
frase memorabile per verità e per bellezza.
A corollario,
quasi a rinforzo nobilitante del concetto espresso, ci sia concesso riportare una
bella riflessione di Cartesio, tratta dai “Privati pensieri” (Cogitationes privatae): «[…] i poeti scrivono nell’entusiasmo e nell’impeto
dell’immaginazione». E i semi di scienza che sono in noi «i filosofi li traggon
fuori con la ragione, i poeti li fanno sprizzar fuori con l’immaginazione, così
che risplendono di più».
Domenico
Franciò
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