Un giovanissimo cane
Schnauzer, della più pura razza
canina, quella così cara al Führer tedesco come prototipo di razza, andava spegnendosi.
Una cosa che ti strappa il cuore dal petto.
Pensate. Un animale,
vivo di una vita strabocchevole, un segno della vita quando essa appare in tutto
il suo fulgore, in tutta la sua lussureggiante, prepotente vitalità, nel suo compiuto
splendore. Questo cane – bello, magnifico, che tutti non gli negherebbero un
complimento, un’ammirazione, un gesto affettuoso – questo cane ischeletrito dalla
micidiale leishmaniosi, ridotto a una misera larva, a quattr’ossa vaganti e
scollate, vive per una cosa sola: giocare. E tu, che non sei un perfido, un
miserabile; se sei, sia pure indegnamente, uno che appartiene alla “razza” che dicesi
umana; tu devi, dico devi, prestarti a giocare: con lui e come vuole lui, come si
fa con qualunque cane del mondo. Tu gli tiri il legnetto e il pelleossa, che
pare se lo siano mangiato i cani tanto appare spolpato – come qui pertinentemente
si potrebbe dire – ha un solo desiderio: andare ad afferrarlo. E tu non devi
fare altro che assecondarlo nella sua feroce volontà, vale a dire fargli gustare
a sazietà, a scialo, l’ultimo piacere che la vita gli offre: giocare col
(presunto) amico, del cui affetto lui ha sempre bisogno e del quale mai ha
dubitato e dubiterà. Diavolo d’un cane! È mezzo morto, è più che morto, e non
vuole smetterla, una volta per tutte, di tirare le cuoia, farla finita insomma con
questa esistenza che altro non gli dà e gli ha dato come compagno e padrone se
non quel bipede, cialtrone d’animo e di corpo. Eh, sì, diavolo di un cane che
non sei altro: non ti sei capacitato, e mai forse ti capaciterai che lo strano
individuo è in realtà il più feroce degli esseri viventi. Perché tu non ti
sogneresti mai di portare guerra ai confratelli, e, se e quando lo facessi, sarebbe
sempre per difendere, o compiacere, lo squallido essere che di te fa uso, nei
casi migliori, per scienza e conoscenza (vedi la più delle volte disutile, impietosa,
brutale, barbara pratica della vivisezione). Tu non fai guerra, dicevo, ai tuoi
confratelli, fratello mio triste, dal tenero candore che sempre imperla muso e occhi.
A te chiedo perdono. Lo faccio a nome – se mi è consentito – della stupidissima
congrega che una cosa sola sa fare, in una sola cosa riesce bene: distruggere
se stessa.
Quanto a te, amico
mio dolcissimo, dimidium animae meae,
abbiti, prenditi tutto il mio affetto e la mia eterna gratitudine. E accetta il
ripullulante rimorso per quanto ti si è fatto soffrire. Pace in eterno, amico.
Possa tu un giorno risorgere al cielo cui anche noi indegnamente aspiriamo.
Domenico Franciò
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