venerdì 30 marzo 2018

Il centurione e la misteriosa grandezza di Gesù


«È religione anche non credere in niente» (Cesare Pavese, La casa in collina)

La Crocifissione di Gesù (da Wikipedia)
Quando Gesù muore, il centurione, vista l’inermità e la mitezza con cui Gesù affronta la morte, esclama: «Davvero costui era figlio di Dio».
A questo punto Martini compie un cammino a ritroso per spiegare il processo psicologico che porterà alla prima professione di fede davanti alla croce. È un processo lento, fatto di tappe. Ad ognuna delle quali viene in chiaro qualcosina di più anche se sfugge il senso complessivo dell’evento. Prima di tutto, trova ingiustificato il livore e l’accanimento di quella imbestialita marmaglia che, urlando pollice verso, vuole la morte di Cristo, preferendogli il ribaldo Barabba. Poi trasecola addirittura al gesto pilatesco di chi, pur trovandolo al netto di colpa, non trova di meglio che lavarsene le mani abbandonando l’innocente al suo destino di morte.
Un personaggio secondario, che ha avuto l’onore di portare per un tratto la croce di Gesù, è il cireneo, che ha dato vita nelle lingue moderne a quel tipo d’uomo su cui vengono, dai furbetti, furbacchini e furbacchioni scaricati i pesi e le incombenze più gravi.
Nel centurione comincia a farsi strada, a prendere corpo, poco per volta, la convinzione che Gesù non sia un uomo comune, anzi comincia a sospettare che sia un essere d’eccezione. Sicché, quando spira sulla croce e avviene quel tremuoto rappresentativo e riassuntivo di uno sconvolgimento cosmico, quando il velo del tempio è squarciato da cima a fondo, allora la luce della fede investe come folgore il nostro e lo abbaglia. «Costui era davvero figlio di Dio», si ripete il vecchio soldato, scosso e commosso tra lacrime di una gioia inesprimibile e indescrivibile per una apertura di fede del tutto inopinata e imprevista.
Domenico Franciò