mercoledì 19 agosto 2020

Lettera a Silvana Mangano (in memoria)

 Carissima Silvana,

credo che nell’immaginario collettivo sia rimasta una delle icone del cinema italiano, tu che della tipica bellezza mediterranea, e, in particolare, italiana sei una delle più rappresentative.

da iodonna.it

La tua carriera, agli inizi, non differisce granché da quella di tant’altre giovani donne, che, consapevoli della propria bellezza, si prefiggono una elevazione del livello socioeconomico. Di qui la partecipazione ai concorsi di bellezza su scale cittadina, regionale, nazionale (“Miss Italia”) è d’obbligo.

Il regista De Santis, in cerca della protagonista del film che aveva in animo di girare, aveva già fatto decine di ‘provini’ senza trovare quel che faceva al caso suo.

Il film sarebbe stato ideologicamente di sinistra, intendeva cioè denunciare all’opinione pubblica la condizione delle mondine della Val Padana, che, sottoposte a un lavoro massacrante, erano sottopagate: uno sfruttamento vero e proprio, perpetrato su giovani, determinatissime a portare a casa un tozzo di pane.

Pare, se non ricordo male, che un provino l’avesse fatto pure a te. T’eri presentata con i capelli gonfi, cotonati: venisti immediatamente scartata. Senonché – quando si dice il caso o il destino, vallo a sapere – lo stesso regista ebbe una sera ad incontrarti per strada, una serata da diluvio universale: i capelli, del tutto lisciati, misero nel dovuto risalto il bellissimo, luminoso tuo volto.

Non c’era più motivo di cercare: scelta fatta, la protagonista di Riso amaro era stata trovata.

Si era negli anni a ridosso della seconda guerra mondiale. L’Italia tutta, dall’Alpi al Lilibeo, percorsa da fermenti, fremiti, slanci di vitalità, dopo avere attraversato tutte le sofferenze, i patimenti, le ristrettezze che la guerra, ogni guerra, comporta, aveva una voglia matta di rialzarsi, risorgere, riprendere una vita normale, tornare alle vecchie abitudini, e, insieme, imprimere un avviamento nuovo, anzi una svolta alla propria storia.

La tua immagine di florida ventenne (avresti fatto parte del gruppo ristretto delle cosiddette ‘maggiorate fisiche’ insieme alla Lollo, alla Loren, alla Pampanini e a quant’altre) che balla nell’aia, con un fil di fieno tra i denti, uno sfrenato boogie-woogie, ancheggiando sinuosamente e seduttivamente, occhio malizioso promettente chissà che delizie, col bieco bandito Gassman, dal volto appena difeso da un cappellaccio, è di quelle scene destinate a diventare oggetto di culto da parte degli appassionati.

Il film ebbe uno straordinario successo e, come si dice in gergo, sbancò ai botteghini. Anche se lo stesso regista, rivelando un notevole spirito autocritico, parlò di un «fumettone».

Di lì in poi la tua carriera cinematografica ebbe il vento in poppa, e passasti di successo in successo.

Negli anni la tua bellezza prorompente si era affinata, il tuo viso s’era fatto quasi etereo, d’una luminosità tutta sua.

Chi non ricorda “arriva il negro zumbon che balla allegro il bajon”, dove prestavi i moti ritmici del tuo splendido corpo alla voce cristallina di Flo Sandon’s.

Hai conosciuto i più importanti registi e sei diventata una star internazionale. Tutto questo, tuttavia, non reggeva con l’attitudine a vivere una vita familiare serena, con tuo marito, l’importante produttore napoletano De Laurentiis, e coi tuoi tre figli, due femmine e un maschio.

Ma il destino era in agguato, pare non aspettasse che il momento buono per riscuotere a prezzo maggiorato la gioia, la felicità che t’era stata data. Gli antichi greci avrebbero trovato al riguardo una riprova dello φθόνος τῶν θεῶν, l’invidia degli dei: quasi che essi non ce la facciano proprio a sopportare che un mortale sia di loro più felice.

Accadde l’ineluttabile. Nell’aereo che andò a schiantarsi al suolo c’era tra i passeggeri il tuo amatissimo figlio ventenne.

La “elaborazione del lutto”, di cui si parla e, a volte, si straparla, in casi come questo, non fu lunga. Fu eterna. E minò la tua salute alla radice, in modo irreversibile.

Per te, che avevi già accusato degli scompensi cardiaci (un cuore capriccioso, piuttosto ballerino), fu il colpo di grazia, quello definitivo che si dà in una esecuzione capitale, per sincerarsi che la morte sia effettivamente sopraggiunta.

Bellissima (bellissimo anche il nome, evocante il verde della silva), bellissima e sventurata, tu, Silvana mia, hai un posto privilegiato nel mio cuore. Che t’ama, t’ama, t’ama. D’un amore disperato, dolente, folle.

Domenico Franciò

mercoledì 15 luglio 2020

Fratello in Cristo


Stando alla mia esperienza, ma suppongo che faccia parte del vissuto di tantissime persone, almeno di quelle che hanno, per formazione culturale e vicende esistenziali, un non trascurabile diciamo tasso di sensibilità e di consapevolezza, ci sono dei momenti in cui due persone vivono un attimo di straordinaria intensità emotiva, quasi un flash, che però il bulino incide sulla tavoletta di cera e consegna allo scrigno, preziosissimo, dei tuoi ricordi, dai quali puoi, tutte le volte che ti vien voglia, estrarli e riviverli.
Ci sono amicizie che non hanno una durata, uno svolgimento che superi l’éspace d’un matin: eppure, esse non hanno, per quel che mi è dato di pensare e sentire, nulla da invidiare alle amicizie che si alimentano di lunghe frequentazioni, o che, anche in absentia, son lì: salde, sicure, una fonte di bene a cui sai di poter attingere in qualsiasi momento. L’amicizia, insomma, la vera, autentica amicizia, si sottrae alla legge inesorabile del tempo, non basa la sua forza sui soliti parametri, e non prevede, né tantomeno esige, misurazioni col bilancino.
Mi accorgo che, come prodigo, la sto facendo troppo lunga e mi affretto a correre ai ripari, voglioso di concretezza e di consistenza.
Da giovane professore, per una decina e forse per più anni, facevo parte, nel torrido e canicolare luglio, come esaminatore di latino e greco, di commissioni preposte agli esami di maturità.
La sede da me preferita era Catania, con i suoi gloriosi licei “Cutelli” e “Spedalieri”. Ad essi spesso si univano licei privati, gestiti da religiosi.
Premetto che ero allergico alle raccomandazioni, che spesso però, per salvare la faccia del raccomandante, si presentavano sotto le mentite spoglie della ‘segnalazione’, quasi fosse una questione nominalistica e non fosse, come era in effetti, qualcosa che non si accordava o collimava con la giustizia scolastica.
Un prete, dunque, mi raccomanda un ragazzo: lo fa, de visu, con una serietà, una gravità che colpiscono: il giovane esaminando viveva un momento difficile, e aveva bisogno, come si dice, di una mano d’aiuto: altrimenti si sarebbe spenta la luce e sarebbe stato per lui buio, buio pesto. Il tono sofferto, la evidente sincerità mi tolsero ogni residuo di perplessità.
Feci di tutto per mettere a suo agio il giovane, che, rinfrancato, superò la prova con una sua dignitosità.
Al momento di congedarci, entrambi perfettamente consapevoli che non ci saremmo mai più rivisti, nell’abbracciarmi mi disse: – Franciò, fratello in Cristo.
Domenico Franciò

venerdì 10 aprile 2020

Recensione a Eugenio Scalfari, “L’ora del blu”


Nella poliedrica personalità di Eugenio Scalfari non mi par dubbio che la parte razionale, raziocinante, insomma intellettualistica, prevalga, e non di poco, su quella emotivo-sentimentale. Ma ecco la sorpresa, lo spiazzamento, il tiro birbone che il buon Scalfari ti gioca: egli è un poeta, uno che sa maneggiare gli strumenti dell’arte, ossia quelli ritmici, rimici che lo apparentano agli altri, ma che accampa anche il diritto ad una ἀναγνώρισις, riconoscibilità, a una sua precisa identità. Egli, in altri termini, non ha potuto non rispondere a una chiamata, a una ‘vocazione’, a una necessità intima, che gli imponeva di entrare nell’agone poetico. Non – sia chiaro – in competizione con altri, ma per una urgenza, una cogenza, una scommessa fatta ante omnia con se stesso, cui non poteva in nessun modo sottrarsi o rinunciare, pena la mutilazione di una parte viva di sé.
La poesia, ogni autentica poesia ha il suo background, il suo retroterra o, se più piace, la sua humus, in una visione della vita, in quella che i tedeschi chiamano Weltanschauung; visione, appunto, che non può non tener conto di quanto la vita nostra sia fatta di aleatorietà, di precarietà; come essa sia intrisa usque ad medullas del sentimento dell’effimero, del caduco cui vanno inesorabilmente incontro le umane cose: le nostre azioni, le nostre emozioni, e commozioni, i nostri affetti, in una parola tutti i sentimenti nostri.
Quanto detto credo sia indiscutibile, e contrassegna tutta la storia, pressoché millenaria, della poesia.
Guardare con occhi asciutti la realtà quale essa è, è proprio dei coraggiosi, di coloro che non cedono alla seduzione delle facili illusioni e che, ciò nonostante, non si rassegnano a non inseguire, perseguire un loro sogno, un solacium (conforto), perfino uno spicchio di felicità.
La cosa che d’acchito, accostandosi a questi versi, salta agli occhi è la congruenza, la convergenza e l’accordo tra forma e contenuto.
Il contenuto – per avvalerci di un trito scolasticume, ma che qui per comodità viene a taglio, e confidiamo non senza una qualche efficacia – non è mai banale, quanto dire scontato.
Dalla realtà il poeta trae infatti aspetti inediti, insospettati, quelli che sfuggono ai più, rimanendo inosservati.
È questo, se non m’inganno, l’aspetto cognitivo, gnoseologico del ποιεῖν, che, con gli accorgimenti, le trovate, gli adescamenti e incantamenti suoi propri, ci porta ad arricchire il nostro mondo interiore, ciò che, in fin dei conti, veramente vale. È così che l’ordinario, l’essere proclivi alla abitudinarietà routinaria, riceve un contraccolpo perfettamente proporzionato alla potenza che il poeta è in grado di esprimere.
La nota di accorato struggimento che, come un basso continuo, connota questa poesia, rende certi dell’amore totale, meglio totalitario, portato alla vita; anche se, tirate le somme, abbozzata la partita doppia del dare e dell’avere, il dolore e la sofferenza prevalgono, e, in misura considerevole, sui fugaci momenti di gioia.
Lo stupor, la stupefazione per il mistero che avvolge da ogni lato è un altro aspetto che immette Scalfari in una più che secolare tradizione.
Poteva essere altrimenti? Un poeta, un poeta che si rispetti, non può non essere colto, non può non essersi nutrito dei succhi più vitali della cultura poetica: egli, con più o meno di consapevolezza, trasceglie di codesta tradizione quel che più fa al caso suo, che risponde ad una sua intima esigenza, e la intride, colora, permea della sua personalità.
Dal punto di vista tecnico-formale (senari, settenari, quinari, e soprattutto endecasillabi) siamo nel vivo della tradizione, in quel che di durevole comporta.
Sub specie contenutistica si è di fronte a una vera e propria visione del mondo. Che è di Scalfari e di nessun altro.
Essendo un non credente, egli ha una concezione sostanzialmente nichilistica; a proteggerlo però dagli effetti perniciosi, per non dire disastrosi, di tale non-credenza che quella non può non implicare, è proprio la sua poesia. Giacché ogni poesia, dalla grande alla minima, ha questo di peculiare: che è sempre, in ogni caso, altrice, motrice e matrice di vita, di vitalità, perfino di felicità, sia pure venata di una lieve, dolce, soffusa malinconia.
I ricordi più belli riportano all’infanzia, a quei natali che lo vedevano insieme alla madre «Deporre il bambino / nella mangiatoia / e l’asino e il bue / lo riscaldavano col fiato / e i pastori intorno / e la cometa che tracciava nel cielo / l’avvento del miracolo».
Due note finali.
Come mai la silloge ha per titolo L’ora del blu.
A nostro sommesso avviso, la ragione prima, la più ovvia, è un centone di citazioni insistenti su tale colore: svariano da Ungaretti, Montale, Quasimodo a Saffo, all’anonimo del Pervigilum Veneris, a Garçia Lorca.
È che, muovendosi tra cielo e mare, il blu non poteva non essere il colore dominante; che d’altra parte non si tratta di un colore aggressivo, squillante, prepotente come il rosso: esprime una pacatezza, oseremmo dire una dolcezza, che sono una conquista – e, come tutte le conquiste, faticosa, sofferta ancorché piacevole e appagante – della maturità di Eugenio Scalfari.
In definitiva, una poesia che riassume, come meglio non si potrebbe, che cosa è l’uomo, in che consiste la sua humanitas; e si risolve in una esaltazione della creatività, l’unico mezzo di cui disponiamo in grado di vibrare il colpo decisivo all’infelicità nostra.
La poesia Amapola rievoca uno di quei ricordi custoditi nel geloso scrigno della memoria. Quella canzone degli anni Quaranta, portata al successo da Rabagliati, in cui ricorre la frase “lindissima Amapola”, io la interpretavo alla stregua dell’imperativo categorico kantiano, vale a dire: ama Pola.
E non posso sottacere, a questo punto, l’allusione a un’altra canzone, assai in voga in quegli anni, Blue Moon, “Luna malinconica”: con quei versi finali così struggenti che condensano, come meglio non si potrebbe, il senso della nostra vita: «Tu sei un sogno infinito / che con noi se ne andrà, / dolce argento di luna».
Domenico Franciò