lunedì 6 agosto 2018

Lettera a Giacomo Leopardi


Carissimo Giacomo,
da Wikipedia

mi accingo a scrivere del più grande lirico che l’Italia abbia mai avuto, l’unico in grado di reggere il confronto con gli stranieri.

L’attacco, come vedi, dice, in sintesi, l’ammirazione che chi scrive ha per te.

Ai tempi in cui da studente frequentavo l’università, qualcuno, anzi qualcuna per essere esatti, andava dicendo che tra te e Baudelaire non c’era partita.

La cosa non mi trovava per nulla d’accordo allora, non mi trova affatto d’accordo ora.

Ci si intenda. Non sto negando né intendo aprire una querelle sulla grandezza del francese, né tantomeno mi sognerei di mettere in dubbio la cifra poetica di Les fleurs du mal o di aprire un contenzioso sulla superiorità dell’uno sull’altro. Sarebbe semplicemente pazzesco, cosa di chi si fosse bevuto letteralmente il cervello. Pur con i miei limiti, non penso di essere da tanto.

Della condizione del poeta nella società del tempo, e forse di tutti i tempi, il francese ha fornito un ritratto criticamente puntuto nella poesia L’albatro, dove è messo in evidenza il suo sentirsi a disagio, il non essere preso in (seria) considerazione.

Ora, non credo che tu, caro Giacomino, soffrissi questo disagio, giacché di riconoscimenti (di studioso, di poeta, di filosofo, di filologo) ne hai forse avuti fin troppi; a partire dal Giordani che fu, in certo senso, il tuo mentore (oggi si direbbe il tuo sponsor).

È stato – e giustamente – notato che il tuo lessico poetico è estremamente povero. Tanto per rendere l’idea, per rendercene conto e farci del tutto consapevoli, un confronto col lessico dannunziano, ammesso e non concesso, diremmo col buon Totò, che il valore di una poesia e di un poeta abbia a giudicarsi in termini quantitativi, e non qualitativi, ti vedrebbe miseramente e miserevolmente soccombente sconfitto umiliato e offeso.

Ma – è acquisto (κτῆμα) ἐς ἀεί, ab immemorabili – che la poesia non si pesa né si soppesa, come un cartoccio di salame o di popcorn da sgranocchiare durante la proiezione d’un film.

Altro, ben altro è il metro su cui si misura, e va misurato il valore di una poesia, di un poeta.

Era un tuo chiodo fisso che certe parole avessero, abbiano in sé, di per sé, un intrinseco valore poetico, un’aura densa di suggestioni, capaci di attivare cortocircuiti di emozioni, sentimenti, ri-sentimenti, di stimolo a una prosecuzione, una integrazione personale (un esempio per tutti: lontanare). Ciò rientra chiaramente nell’ambito della tua poetica del vago, così peculiare del tuo ποιεῖν.

Sottoponevi le tue cose a un duro, incessante labor limae. Lavoro consistente non solo nel setacciare, sfrondare, ripulire il testo dalla sterpaglia del superfluo e del ridondante ma, altresì, nell’aggiustare, nel mettere a posto, nell’arricchirlo di nuove forme espressive e di nuovi contenuti sostanziali.

Gli Idilli (una evidentissima derivazione dal greco εἰδύλλια, a sua volta diminutivo di εἴδη, cose viste, immagini), sia grandi sia piccoli, hanno rappresentato una bellissima stagione della tua ispirazione, della tua creatività. Di qui i capolavori: Il sabato del villaggio, La quiete dopo la tempesta, Il passero solitario, La sera del dì di festa, eccetera.

Non era finita. Il tuo genio doveva regalarci un ultimo guizzo, forse il più luminoso e il più ricco di valori umani e sociali, il più ricco di prospettive future, il fiore più bello, perché fiore nato nel deserto. La ginestra è la poesia cui hai affidato l’ultimo, appassionato tuo messaggio alla intera umanità. Gli uomini, in tanto male dilagante e tendente ad accamparsi come unico potere in grado di sgranare il filo lungo della matassa storica, l’unico obbligo morale che hanno è di formare unità, di coalizzarsi opponendo un antemurale che rintuzzi la protervia del male e del maligno in tutta la sua capillare fenomenicità. Questa è l’arma vincente, la risorsa che hanno, abbiamo a disposizione per contrastare la natura rivelatasi col suo vero volto, col suo incommensurabile carico di sofferenza e di dolore. Non più da parte del poeta il gesto isolato, velleitariamente epico e vanamente simbolico del «combatterò, procomberò sol io», ma il raggiungimento di una persuasione, anzi della convinzione profonda che opporsi al male e promuovere il bene sia l’unica cosa da farsi, il solo dovere (officium) da adempiere. E senza perder tempo.

Con lo Zibaldone, diario ponderoso, ci hai ammesso, e immesso, all’interno della tua officina (opificium), senza timore alcuno, anzi col piacere di invitare dei cari, degli amici, a farsi edotti di quali processi intermedi avesse bisogno la tua macchina per efficacemente funzionare.

Caro Giacomo, sia il tuo messaggio ultimo, fraterno solidale amorevole, a permeare e intridere il gramo oggi, in modo da scuotere le coscienze dalla vile inerzia, a vincere certa neghittosità pigrizia renitenza o riluttanza, a toglierci finalmente di dosso il lascito di un secolare servaggio che il devastante scorrere del tempo ci ha donato in grazïosa eredità.

Domenico Franciò