domenica 26 ottobre 2014

Otium sine litteris



Otium sine litteris mors est et hominis vivi sepultura (Seneca)
“Il tempo libero, senza studio e cultura, è morte,
un sepolcro con dentro un vivo”


 Un aforisma secco e perentorio che mette a nudo un’esistenza ignobile, non da uomo. E tetra anche, e persino macabra.
Non sorprende più di tanto che a dare la sveglia e a suonare la carica sia quel filosofo, che tra gli antiqui è forse quello di cui più caldo sentiamo il fiato sul collo. Ed è messaggio più che mai attuale e controcorrente dopo che da tante bocche becere e irresponsabili sono state ruttate parole volte a deprimere, quando non a demolire, quel poco – ma che è molto, moltissimo – di bene che solum può alleviare l’infinita miseria della nostra vita.
Fatto sta – ed è incontrovertibile – che l’aria afosa, irrespirabile dell’incultura, del cinismo, della rozzezza e del tornacontismo si è radicata in pianta stabile – e non di recente – nel nostro squallido quotidiano, e non pare abbia tanta voglia di sloggiare.
Cultura però da intendersi, precisiamo, a scanso di equivoci, non come arredamento esornativo e tappezzeria, sibbene come ricerca, incessante e mai paga, di riappropriazione dell’umano in noi: mezzo risolutivo a vincere quell’ozio che, se inteso come inerzia e paralisi dello spirito (acedia o accidia), e non pausa necessaria di riposo e di rigenerazione delle energie, fisiche e intellettuali, libera il frutto più aspro e tossico che al mondo ci sia: la noia.
Domenico Franciò

lunedì 2 giugno 2014

L’atleta



Sto guardando la foto del calciatore Totti che si mette le mani nei capelli, mentre il volto è contratto in disperazione. Non c’è dubbio che Totti, giocatore straosannato e stimato, sia in quell’istante il più infelice degli uomini, aggredito com’è da un devastante dolore. Se le cose poi andranno secondo desiderio, un’altra foto lo fisserà, lo ritrarrà tutto diverso, traboccante di gioia infinita e senza limiti. E perfino estatica.
Gli esempi, moltiplicabili quanto si vuole, possono abbracciare tutti gli sport, sia individuali sia collettivi.
Cosa intendo dire? Che la vita dell’atleta (l’etimo lo definisce lottatore) non è una vita ‘normale’. Nello spazio di un tempo e luogo determinati – nel caso di Totti una partita di calcio – si assiste alla ‘condensazione’, intensificazione di tutto ciò che nella vita dei comuni mortali è come diluito e sperso. L’atleta vive in quei novanta minuti, con estrema serietà ed impegno, una tale varietà di situazioni e di emozioni che se esse putacaso dovessero irrompere nel quotidiano sarebbe un disastro: scardinerebbe radicitus il più solido degli equilibri acquisiti, farebbe piazza pulita d’ogni quieto vivere. Per questo, chi ha provato quell’esperienza vitale, non appena appende le scarpe al famigerato chiodo, rischia di sprofondare in un abisso, e di dover lottare, per il rimanente della sua vita, contro ricorrenti nostalgie, amari rimpianti, lancinanti rimorsi. E spesso si chiederà: ne valeva la pena? Valeva la pena essersi assicurato per sé e per i suoi un futuro privo di preoccupazioni economiche se tale futuro sarebbe stato così tormentato e inquieto? Sì – osiamo dirgli con la forza della persuasione – ne valeva la pena. Quella vita oscuramente forte non è concessa a molti: quel dono, quel privilegio, prezioso e rischioso, solo a pochissimi tra gli uomini è dato sotto il cielo di godere. E aggiungo a corollario quella bella e saggia riflessione iliadica: “E, anche se siamo nell’afflizione, lasciamo che le cose siano avvenute come sono avvenute, domando – altro non possiamo – il θυμός, l’animo nel petto”. E, a seguire, il forte sigillo beethoveniano: «Muss es sein? – Es muss sein» (Così deve essere? – Così deve essere).
Domenico Franciò

mercoledì 7 maggio 2014

Recensione a “La direzione. Suite per Irene” di Vincenzo Leotta, Giambra Editori 2014



Si può affermare con un certo margine di sicurezza, e senza timore di incorrere nell’ira degli dei, che la nota dominante di questa silloge di Vincenzo Leotta sia un flusso d’amore bidirezionale. (Non certo casuale il titolo “La direzione”). Flusso d’amore ininterrotto dalla bimba Irene ai cari, dai cari ad Irene; vale a dire dal centro, che indubitabilmente è Irene, alla periferia, che sono i suoi familiari, in un virtuoso vortice incessante. Il vortice entro cui vagano, rapite da tempesta che mai non cessa, le anime sbigottite e vaganti di Paolo e Francesca.
Quanto al sottotitolo “Suite per Irene” non è che i dizionari siano prodighi al riguardo. Dicono che si tratta di un termine musicale, ed esattamente: «Composizione strumentale di origine barocca per danza in più tempi, ove si alternano pezzi in rapido movimento a pezzi a movimento lento».
Tocca perciò al critico, o comunque allo studioso, cercare di tirar fuori, snidare l’intenzionalità semantica affidata al termine. Operazione che va fatta sempre, crediamo, ἀπάλαις χερσίν, con mani delicate, ossia col tatto e la levità di tocco che la materia e la circostanza richiedono.
A me pare, stando anche all’etimologia che si lega chiaramente a ‘seguire’, che il poeta abbia pensato alla sua silloge come a qualcosa di compatto, ad una serie di tessere incastranti l’una nell’altra per un disegno nitido e coerente.
L’esame, analiticamente e concretamente condotto sulle diciotto poesie, si presta ad avvalorare questa impressione. Da ciascuna di esse – ma senza un ordine prestabilito né tantomeno sistemico, o sistematico, che, francamente, confessiamolo, non è nelle nostre corde, e ci toglierebbe respiro e libertà di movimento, preleviamo elementi puntuali, che confortino la tesi intravista.
Prendiamo 18. Esso compendia (ab uno disce omnes) la singolarità poetica della raccolta: i versi iniziali della felicissima battuta autoironica («Venuta l’ora, il più tardi però») s’innestano, con felicità e leggerezza, sulla espressione di candido affetto per la «dolce nipotina», facendo da supporto, in questo, la fede non certo ordinaria del nonno-poeta.
È ufficio e compito del nitore formale contenere dentro giusti argini una straripante tenerezza che altrimenti non si vede come poter fermare. Esaminiamo la prima poesia.
Chi non sa che Marzo è ‘pazzariello’, il mese buono per tutte le sorprese? Prove di partenza: pronta la valigia, timbrato il biglietto di sola andata, la mente e l’animo disposti all’altrove (nox una dormienda), quell’altrove misterioso che – si sa – non ammette ritorno né, aggiungiamo, moviola o replay (unde nullus numquam redit). Non aveva fatto però i conti il Nostro con l’improvvisa epifania della paciosa bimba Irene, che svoglia ad iniziare quel viaggio. Che altro fare allora quando accanto c’è una creaturina indifesa e inerme, se non sostenerla, anche se si è «debole», «infermo» di suo? La ‘rivoluzione’ diventa tutta una preziosa occasione per un osservare amoroso. La figlia felice, che dà il latte alla nipotina felice, è situata in un quadretto idillico, tenero e beato, che scioglie il sangue facendo rifluire la vita e disponendo a nuovi sogni, a «nuove follie» (2). La bimba sa astrarsi dal circostante per uno spazio tutto suo «le mille miglia distante», e dunque inattingibile, più che refrattaria, all’abbraccio. Il tema del desiderio d’amore circola come un fiume carsico, ma non è certo un fatto sporadico o occasionale (7).
In 15, l’osservazione analitica di ogni particolare del comportamento neonatale raggiunge l’apice. La citazione deve essere più corposa: «Non parla ma non c’è parte del corpo / quieta: gonfia gli occhi le gote / dimena le braccia le mani / ruota le testa a centottanta gradi / punta i piedi inarca la schiena… / Sembra un torello innanzi alla muleta». Come si vede, il ritmo si fa incalzante, dionisiaco: c’è come una ebbrezza, tra ammirata e amorosa, che penetra fino al midollo. Pura icasticità, l’iconico che prevale? La domanda è oziosa, non ha motivo di essere posta, in quanto resa vana dalla finezza finale: il pianto della bambina taglia – per così dire e anche per restare in tema – la testa al toro.
In 8, la bimba Irene si esibisce voluttuosamente nella lallatio: parla parole che sembrano prive di senso – e lo sono davvero ad occhio razionale ed alfabetizzato –. In realtà sono squisite e brillanti esercitazioni musicali su spartiti che tutti ignorano e che solo lei conosce a fondo: a sei mesi, dunque, la nostra Irene non trova di meglio che lallare e irridere chi tenta di capire le cose, usando di un unico codice interpretativo. Quasi d’obbligo la citazione: «Ma con gli occhi non trovi chi la superi: / – se ti guarda, t’incute soggezione / – se piange, un nodo ti serra la gola / – se sorride, ti credi in paradiso». Dalla soggezione (la bimba soggioga col suo volto serio e assorto) al nodo in gola, al sorriso paradisiaco, il passo è breve, e finalmente appagante.
Tra rabbia fin troppo ottimistica (Gott mit uns) e assenza di nemici (ne siamo proprio certi e sicuri?) e il fastidio per la chemio, ecco l’ἀπροσδόκητον, l’inatteso, ciò che ti ridà il sapore, il gusto sottrattoti al corpo in disarmo. Situazione nuova che potremmo etichettare ‘ribaltamento della situazione’. Anche qui (13), un dettaglio osservato con spirito d’amore (vv. 8-9: «succhiando il piedino con le labbra come fosse il seno della mamma»). L’immagine tratta da un salmo amoroso, significante l’estremo abbandono della creatura umana nelle braccia misericordiose di Dio.
In 10, trovo la spiegazione della mamma della bimba più che giusta e persuasiva. Lo splendore di bimba Irene aiuta il quasi-cieco nonno a ritrovarsi, ossia a vedere dentro il buio che sgomenta.
Il fulgore della bimba ha la meglio, la spunta sui chiari, inoppugnabili segnali di degrado (entropia) e di disfacimento che sono l’alloro spento, deprivato del suo verde manto, per solito lucido e denso. E poi, quel sole così stracco e stralunato, dall’alone che non promette nulla di buono.
Domenico Franciò

mercoledì 30 aprile 2014

Paura dello strazio



Splendida testimonianza di un medico-clown, ovvero di chi si traveste da medico-clown per donare sollievo, gioco e gioia a piccoli e giovanissimi affetti da tumore.
Ed ecco la straordinaria esperienza comunicata in radio dal protagonista. Come ha dovuto nei primi tempi – e ancor ora – scavalcare un macigno, una montagna: la paura. La paura dello strazio. Ma alla volontà – ce lo ricorda un ‘giusto’ proverbio – nulla resiste. E così il macigno-montagna è affrontato col piglio di chi corre una corsa ad ostacoli: prima uno, poi un altro, poi un altro ancora, e via così. Davanti alla barriera il cavaliere sente il cuore saltargli in gola, ma il superamento è varco e vertigine per una non misurabile felicità. Volta per volta, ostacolo per ostacolo, con spirito certosino, l’emozione rivive uguale e diversa.
Morale della favola? -La paura, per vincerla, va guardata in faccia senza abbassare minimamente ciglio: vie di fuga, oblique e laterali, non ce ne sono proprio. E codardia e viltà stanno sempre lì, in agguato, pronte ad azzannare il cuore.
Domenico Franciò

martedì 22 aprile 2014

Migliore del maschio




Umberto Saba, nella sua più celebre, e “scandalosa”, poesia “A mia moglie”, afferma risoluto, con tono che non ammette replica: la femmina «è migliore del maschio». Un’affermazione certamente suggestiva, che, per grazia di intuito, può essere fatta propria da ognuno.
La lunga, interminabile, sequela animalesca – continuo paragone, tra somiglianze e dissimiglianze, fra la femmina dell’uomo e gli altri animali «che avvicinano a Dio», non ruota in fondo che su un punto: la capacità generativa, propria e peculiare, della femmina dell’animale.
Il maschio getta il seme e ne può gettare, e sperdere, quanto e più ne vuole in infiniti rivoli e rivoletti: insemina a scialo il maschio, ma… c’è un ma. Non è un portento il Nostro in fatto di memoria e, in più, inclina alla torpida non curanza. Genitore di mille figli, padre di nessuno.
Non così la femmina. Quel seme ricevuto, lei se lo coltiva dentro il suo corpo caldo e voluttuoso, lo elabora in perfetto ossequio a legge di natura (iuxta legem naturae), e, con speranza e tenera trepidazione, attende. Spetta a lei, alla femmina d’uomo, far dono della vita: e con tale travaglio di dolore che termini di confronto, o di riscontro, non si rilevano in nessun’altra umana sofferenza.
I greci antichi – sempre loro – dissero tale verità con le parole orgogliose e sprezzanti di Medea allorché asserisce, e non teme affatto smentita, che le ferite sofferte e inferte reciprocamente in battaglia dai combattenti sono davvero misera cosa, un vero e proprio nulla.
La donna, dunque, proprio per questa sua aderenza ai cicli lunari e alla terra, è portatrice di una legge scolpitale dentro dal Creatore; e siccome, almeno a luce di ragione, il Creatore non può volere il male della sua creatura, la femmina umana è la persona più idonea alla costruzione del bene.
Questa spiegazione – concludiamo – vorrebbe, senza prosopopea e senza hybris, dare ragione di una realtà che solo un grande poeta, con fulminea sintesi intuitiva, poteva scolpire in una frase memorabile per verità e per bellezza.
A corollario, quasi a rinforzo nobilitante del concetto espresso, ci sia concesso riportare una bella riflessione di Cartesio, tratta dai “Privati pensieri” (Cogitationes privatae): «[…] i poeti scrivono nell’entusiasmo e nell’impeto dell’immaginazione». E i semi di scienza che sono in noi «i filosofi li traggon fuori con la ragione, i poeti li fanno sprizzar fuori con l’immaginazione, così che risplendono di più».
Domenico Franciò