lunedì 15 agosto 2022

Ricordo di Vincenzo Leotta

 

In questo nostro tempo, in questa società in cui tutto procede a ritmi vertiginosi, che lasciano poco spazio al ripensamento, cioè ad una sosta, una pausa, per riflettere, per fare il punto della situazione, prima di proseguire in questa dissennata corsa verso non si sa dove e verso non si sa che, Vincenzo (per il sottoscritto Vincenzino) era uno che aveva idee estremamente chiare. Aver idee chiare significa obiettivi da realizzare, mete da raggiungere, e non in un futuro più o meno vago e fumoso ma hic et nunc, qui e ora. Con ciò metteva in pratica, a mio vedere, una delle tante auree massime latine, l’age quod agis, che ti esorta ad agire, qualsiasi cosa faccia, col maggior impegno possibile, al limite delle possibilità.

Vincenzo Leotta e Domenico Franciò


Amatissimo insegnante, di quelli che, come vuole l’etimo, lasciano il segno, ha svolto la sua attività prevalentemente al ginnasio, la cattedra in assoluto più pesante (italiano, latino, greco, storia e geografia), ma anche quella che offriva le maggiori possibilità per incidere sulla formazione dei ragazzi, sia per quanto riguarda la loro crescita culturale, sia per quanto attiene alla loro crescita umana. Le due cose non procedono ognuna per conto proprio, lungo percorsi paralleli, ma, in un insegnante che si rispetti, vanno avanti di pari passo, interagendo e integrandosi armoniosamente.

L’uomo di scuola è anche uomo di libri, una persona che ama tenersi aggiornato, à la pàge, come si dice, e che, di là dal lavoro scolastico che si porta a casa (temi, versioni, compiti insomma da correggere e valutare), non si chiude nella classica torre d’avorio, ma ama decisamente coltivare i rapporti interpersonali.

Leotta, fatta amicizia con Giovanni Raboni, noto critico letterario, non che poeta di suo, collabora con lui ad un lavoro filologico puntuale, rigoroso, in una parola scientifico sull’opera poetica di un grande siciliano, quel Bartolo Cattafi, che, a Milano, faceva il pubblicitario prima di imporsi all’attenzione critica con smilzi ma sostanziosi volumetti di una poesia asciutta, scabra, quasi rastremata.

Anche per suo merito, dunque, il poeta barcellonese ebbe nell’Olimpo poetico siciliano il posto che meritava: accanto ai Lucio Piccolo, ai Leonardo Sciascia, ai Vincenzo Consolo, ai Federico de Roberto – non ci si sorprenda che in questo elenco figurino prosatori, dato che anche la prosa può assurgere a poesia, e di grande livello e qualità, in tutte le sue infinite epifanie, secondo quanto abbiamo appreso da Croce. Per non parlare dell’ormai classico Verga.

Vincenzo era profondamente religioso, non era di quei cristiani buoni solo per infoltire statistiche, non di rado distorcenti e fuorvianti. Quando il male del secolo lo aggredì con sistematica devastazione, egli, in seguito alla nascita di una nipotina da parte dell’amatissima figlia Serena, trovò l’ispirazione per dei versi di toccante intensità e umanità. I più belli, a mio avviso, che abbia scritto, e da qualsiasi punto di vista, all’interno di una produzione poetica, peraltro, di una certa consistenza. E non mi pare di esagerare se aggiungo che vi ha riversato a pioggia la sapienza del cuore.

In cielo avrà raggiunto la madre, una mater dolorosa, che, vistasi strappare da un momento all’altro la figlioletta in un giorno che doveva essere di festa per l’ingresso liberatore delle truppe anglo-americane – la bambina, sportasi per vedere più da vicino, sfuggita di mano proprio a Vincenzo, era stata falciata da una camionetta – per il resto della sua esistenza non riuscì in quella che viene chiamata elaborazione del lutto, tanto era soverchiante il suo strazio.

Vincenzo Leotta e Domenico Franciò
Nel cercare di dare il senso della complessità e della ricchezza umana di Vincenzo Leotta, farei torto alla sua memoria se non accennassi a una sua peculiarità. Pur essendo consapevole del suo valore – poteva non esserlo? – era dotato di una qualità assai rara tra gli intellettuali o sedicenti tali: quella di saper riconoscere i propri limiti – che, dopotutto, altro non sono che i limiti di ogni essere umano: il sentimento dell’umiltà.

Sapeva dunque riconoscere i meriti altrui, e, quando se ne presentava l’occasione, dava loro il massimo risalto. Una volta, infatti, mi confessò che in lui era scattata la molla dell’emulazione, la voglia di far poesia, allorché, rovistando fra le mie carte cui aveva libero accesso, era stato quasi folgorato dal verso di una mia poesiola giovanile: «nella notte, un cane lacera le sue ore».

Vincenzo Leotta era incapace di bugie. Si capisce allora perché la menzogna distasse da lui anni-luce.

Credo proprio che il mondo della cultura e, tout court, il mondo, con la sua scomparsa, si sia ritrovato ancor più povero.

Domenico Franciò