Stando alla mia esperienza, ma suppongo
che faccia parte del vissuto di tantissime persone, almeno di quelle che hanno,
per formazione culturale e vicende esistenziali, un non trascurabile diciamo
tasso di sensibilità e di consapevolezza, ci sono dei momenti in cui due
persone vivono un attimo di straordinaria intensità emotiva, quasi un flash,
che però il bulino incide sulla tavoletta di cera e consegna allo scrigno,
preziosissimo, dei tuoi ricordi, dai quali puoi, tutte le volte che ti vien
voglia, estrarli e riviverli.
Ci sono amicizie che non hanno una durata,
uno svolgimento che superi l’éspace d’un matin: eppure, esse non hanno, per
quel che mi è dato di pensare e sentire, nulla da invidiare alle amicizie che
si alimentano di lunghe frequentazioni, o che, anche in absentia, son lì: salde, sicure, una fonte di bene a cui sai di
poter attingere in qualsiasi momento. L’amicizia, insomma, la vera, autentica
amicizia, si sottrae alla legge inesorabile del tempo, non basa la sua forza
sui soliti parametri, e non prevede, né tantomeno esige, misurazioni col
bilancino.
Mi accorgo che, come prodigo, la sto
facendo troppo lunga e mi affretto a correre ai ripari, voglioso di concretezza
e di consistenza.
Da giovane professore, per una decina e
forse per più anni, facevo parte, nel torrido e canicolare luglio, come
esaminatore di latino e greco, di commissioni preposte agli esami di maturità.
La sede da me preferita era Catania, con i
suoi gloriosi licei “Cutelli” e “Spedalieri”. Ad essi spesso si univano licei
privati, gestiti da religiosi.
Premetto che ero allergico alle
raccomandazioni, che spesso però, per salvare la faccia del raccomandante, si
presentavano sotto le mentite spoglie della ‘segnalazione’, quasi fosse una
questione nominalistica e non fosse, come era in effetti, qualcosa che non si
accordava o collimava con la giustizia scolastica.
Un prete, dunque, mi raccomanda un
ragazzo: lo fa, de visu, con una
serietà, una gravità che colpiscono: il giovane esaminando viveva un momento
difficile, e aveva bisogno, come si dice, di una mano d’aiuto: altrimenti si
sarebbe spenta la luce e sarebbe stato per lui buio, buio pesto. Il tono
sofferto, la evidente sincerità mi tolsero ogni residuo di perplessità.
Feci di tutto per mettere a suo agio il
giovane, che, rinfrancato, superò la prova con una sua dignitosità.
Al momento di congedarci, entrambi
perfettamente consapevoli che non ci saremmo mai più rivisti, nell’abbracciarmi
mi disse: – Franciò, fratello in Cristo.
Domenico
Franciò
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