“Ed è il pensiero / della
morte che, in fine, aiuta a vivere”. Umberto Saba, Sera di febbraio.
Il triestino Umberto Saba,
una delle voci poetiche più sicure del panorama del Novecento, presenta
ascendenze leopardiane. Ovvero, c’è in lui una mescolanza, o meglio una fusione
tra pensiero e lirismo, sicché essi appaiono inscindibili: tanto l’uno si
nutre, si alimenta dell’altro.
In tutte le sue sillogi
non c’è poesia che, insieme al brillio, allo scatto – per dirla in termini
crociani – dell’intuizione poetica, non comporti un modo di porsi di fronte
alle cose, alle vicende, o alle vicissitudini più o meno dolorose.
Non si tratta di
ottimismo o del suo contrario, si tratta di una interpretazione, una
valutazione che il tedesco, incisivamente, esprime con Weltanschauung.
Il pensiero che tutto
finisca, che gli affetti più cari sprofondino nel “nulla eterno” è una sorta di
lugubre basso continuo sotteso al vivere nostro.
Certo, la fede, l’autentica
religiosità, il pensiero che sarà lo stesso Dio ad asciugare ogni lacrima e a sconfiggere
definitivamente la morte, e che dolore e sofferenza saranno uno sfocato, un
pallido ricordo di qualcosa che non esiste più, aiuta, per l’appunto, a vivere.
Domenico
Franciò