«O mente umana al proprio
ben rubella! / Vede tanta sua pace e non la cura, / e stima porto ov’ha flutto
e procella». Celio Magno, Non fuggir, vago augello

C’è una retorica del Natale, a non dire della sua disinibita sfrontata
sfacciata spudorata commercializzazione, che vede e vuole gli uomini farsi, da
un momento all’altro per magia, più buoni, più disposti al perdono: i presepi,
le luci degli alberi che s’accendono e spengono alternativamente, i rituali
cerimoniosi. Gli zampognari, con le loro ciaramelle (oh, Pascoli messinese!)
venivano giù, nella infanzia felice, nelle case a suonare con un suono che
usciva dai panciuti otri di cuoio davanti ai presepi: un clima, un’atmosfera
che puntualmente si rinnovava. Oggi si continua ad essere sotto tiro della
minaccia nucleare e di fanatici irresponsabili che, torcendo il collo alla loro
religione, seminano morti stragi massacri.
Fortuna che abbiamo un papa che non si tappa gli occhi per non vedere e
le orecchie per non sentire come la famosa scimmietta, e che conosce a fondo (funditus) in tutte le sue pieghe, propaggini
e ramificazioni la natura umana. Le sue parole, in qualunque circostanza, e
soprattutto quando parla a braccio, incidono come il bulino la pietra e
scuotono le coscienze e i cuori più incalliti, affetti da sclerocardia.
Che il natale di Cristo, che ha reciso di netto la storia in due parti asimmetriche,
possa, in tutti, risvegliare speranze sopite o affievolite o dormitantes (dormicchianti), e portare
sollievo respiro lenimento a chi è nel dolore, nello strazio.
Domenico
Franciò