giovedì 21 luglio 2011

Un esempio di scuola ‘antica’



Se per scuola intendiamo non l’istituzione (con la connotazione di metodico e collettivo che la parola si porta) ma semplicemente, ed essenzialmente, una modalità, più o meno formale, di trasmissione del sapere, Seneca può fornirci al riguardo una prospettiva a dir poco allettante.

Una sua famosa osservazione al vetriolo prende di punta una realtà assurda e al limite dell’intollerabile: Non vitae discimus sed scholae, non impariamo per la vita ma per la scuola. Frase che suona ancora di straordinaria attualità nell’indicare ciò che mai andrebbe fatto, la frammentazione e dispersione del sapere in infiniti e asfittici rivoli informativi che non ampliano l’orizzonte culturale umano ma lo deprimono e schiacciano con la mole indigesta della sterile erudizione.
Per rendersi conto della portata provocatoria della sententia senecana basta rifarsi al contesto storico-culturale in cui essa nasce. Da un lato, il degrado insanabile della oratoria che, col venir meno delle condizioni di libertà garantite dallo stato repubblicano, smette la sua carica vitale e, all’ombra della scuola, si riduce a pura declamatoria, nel culto di una parola vuota più di un guscio vuoto. Dall’altro lato, la persistenza di una filosofia teorica, verbosa e verbalistica, incapace di misurarsi con la vita, di dare risposta ai sempiterni e laceranti problemi dell’uomo. Non sono in realtà, nella visuale di Seneca, le sottigliezze a rendere gli uomini buoni, solo la ricerca di saggezza è il vero bene. I filosofi sottili sanno offrire insegnamenti che valgono per la scuola, non certo per la vita. Ed ecco delinearsi per contrasto ciò che conta veramente. In una lettera indirizzata all’amico e discepolo Lucilio (6, 4-7), la prima, interessante affermazione a venirci incontro è il desiderio del maestro di travasare tutto nell’amico-discepolo (omnia in te cupio transfundere) al fine di dar vita a una comunicazione totale, ad un’osmosi spirituale che vinca il senso di alterità talora persistente anche nei rapporti di più ricca intimità e risonanza affettiva. Tale desiderio, per conseguenza logica ed emotiva, fa sì che il continuo studio del maestro avvenga sempre nella gioia perché ha la sua ragion d’essere nel subordinarsi all’insegnamento: discere insomma per docere, imparare per insegnare. Giacché, è affermato subito dopo, se dovesse tener chiuso il suo sapere dentro di sé, non ne trarrebbe nessun giovamento, nessun piacere. Scavando ancora, si arriva a dire che persino la saggezza, l’aspirazione massima per un filosofo, è da rigettare se solo non possa essere condivisa. La delicatezza premurosa e generosa del maestro apparirà in tutta evidenza là dove è detto che, spedendogli alcuni libri, egli, per agevolare la ricerca delle cose importanti, metterà dei segni a quei passi che più hanno destato in lui interesse e ammirazione. Ma – alla fin fine – quel che veramente favorisce lo scambio non è tanto lo scritto, il discorso scritto, quanto la presenza viva del discepolo: lungo è il cammino affidato all’astrattezza dei precetti e degli ammaestramenti, breve ed efficace quello che si realizza nel concreto degli esempi. Platone e Aristotele impararono certamente di più dal comportamento di Socrate che non dalle sue parole.
Il vertice educativo è toccato nella frase successiva: la presenza del discepolo è necessaria perché non solo abbia a trarre profitto dal maestro, ma perché proprio lui, il maestro, abbia da imparare dal discepolo. A questo punto si fa chiaro che la dualità maestro – discepolo è saltata via, con annullamento dei ruoli prefissati e irrigiditi. Un movimento si attiva di interscambio per cui non si sa più chi sia il maestro chi sia il discepolo, essendo l’uno e l’altro vitalmente complementari.
In conclusione credo si possa sostenere tranquillamente che un’autentica trasmissione del sapere non può che articolarsi in un modo che si potrebbe definire bidirezionale. Un insegnamento che sia soltanto unidirezionale e unilaterale, quale è quello praticato a tutt’oggi dall’ordinaria prassi scolastica, è cosa più vecchia e stantia del magistrale esempio suggeritoci da un uomo di duemila anni fa.
Domenico Franciò
[Articolo apparso su La Scintilla del 2 novembre 2003]

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