lunedì 4 marzo 2024

“Vita mia” di Dacia Maraini

 

Se non si tiene conto della dichiarazione di intenti dell’autrice in premessa a questo libro (Vita mia di Dacia Maraini, Rizzoli 2023), ci si preclude la piena comprensione del contesto esistenziale degli anni durante i quali un’intera famiglia vive in un campo di concentramento giapponese, alle prese, giorno dopo giorno, quasi uno stillicidio, con le difficoltà, le criticità, le urgenze che altri esseri umani infliggono ai Maraini, in concomitanza con calamità naturali, come, ad esempio, i terremoti.

La scrittrice, che nei precedenti libri non aveva che rapidi cenni agli anni drammatici vissuti nei campi di concentramento in Giappone, decide di affrontare di petto il racconto di vicende dolorose che ne hanno, indelebilmente, e comprensibilmente, segnato la vita.


Nella premessa, dunque, la scrittrice afferma giunto il momento della narrazione, che per lei costituirà, sperabilmente, una vera e propria liberazione da un fardello, fattosi insostenibile, di vicende dolorose, drammatiche, non di rado al limite della tragedia, se non tragiche.

Come mai, per che cosa – ci si chiederà – i Maraini si trovano alle prese con una situazione che mette in gioco, al fine di sopravvivere, tutte le risorse sia fisiche sia psichiche, oltre che socioculturali, di cui dispongono e si avvalgono.

Tutto nasce dal fatto che il Giappone entra in guerra, alleata dell’Italia fascista e della Germania nazista.

I protagonisti, prevalentemente, e ovviamente, gli adulti, anche se le piccole sorelline Dacia e Toni non si trovano dietro le quinte della narrazione, per essersi dichiarati antifascisti, vengono destinati a un campo di concentramento.

Il padre, Fosco, antropologo, si era brillantemente segnalato per avere indagato, studiato e penetrato profondamente la cultura di cui era innamorato: la cultura giapponese. Il Giappone non aveva – si può dire – segreti per lui. Certo, a differenza della moglie, il rigore scientifico delle sue ricerche lo portava ad eccessi di razionalità, che lo rendevano refrattario ai sentimenti. Ciò facendo, si inibiva, per lo meno in parte, la comprensione di situazioni che avevano bisogno di essere interpretate all’interno di una cornice fatta di sentimenti.

Il profilo che viene fuori è di un uomo dalla forte personalità, in grado di prendere, quand’era necessario, decisioni lì per lì, senza tentennamenti e perplessità, senza scoraggiarsi, o – peggio – disperarsi. Un decisionista, in altre parole.

Spiccato il sentimento della dignità umana. Allorché questa viene intenzionalmente umiliata e offesa, non esita a tagliarsi un dito della mano e a gettarlo in faccia a chi l’aveva personalmente offeso e, insieme, insultato un popolo, gli italiani, qualificati come vigliacchi e traditori.

No, era impossibile, e nemmeno immaginabile, che Fosco potesse soffrire questo oltraggio alla sua italianità.

Topazia, la moglie, una nobildonna dell’aristocrazia palermitana, dotatissima di senso pratico, faceva da contrappeso con la sua saggezza: il suo innato, ma anche coltivato, equilibrio, per la velocità di pensiero le consentiva di individuare in un attimo il nocciolo delle questioni e delle situazioni, e la maniera di venirne a capo. In più occasioni, ha modo di esprimere questo aspetto non irrilevante della sua personalità. Quando, ad esempio, durante una gita in barca, sottrae a morte certa la figlioletta Dacia.

Succede che uno degli amici, durante una battuta di pesca subacquea, non si accorge che la fiocina, invece di infilzare la preda, sta, di contrabbalzo, per trafiggere Dacia. Topazia, con uno spintone, le imprime la giusta deviazione.

Topazia, oltre a immergere. con i suoi racconti, le sue bambine in un mondo fatato, favoloso, fiabesco, dove non c’è posto per la sofferenza e il dolore, ma tutto è gioia, joie de vivre, di godersi la vita, era esperta nell’arte del cucito.

Quando le viene messa a disposizione una macchina, risolve di ingraziarsi le occhiute guardie rimettendo a posto le loro divise.

Dacia ha deciso di non mangiare più carne dopo avere assistito allo sgozzamento di una pecora, peraltro sotto lo sguardo impietrito e “lagrimoso” di un’altra pecora, cui sarebbe toccato da lì a poco lo stesso trattamento.

Lasciamo la parola alla scrittrice: «La pecora si è dibattuta spalancando la bocca da cui non usciva più alcun suono. […] Da ultimo ha tirato fuori una piccola lingua rossa come per salutare con uno sberleffo il suo assassino. […] Ho pensato a tutto il dolore che infliggiamo alle bestie e mi si è stretto il cuore».

Altro argomento che sollecita, alimenta la sua fantasia è lo spirito avventuroso. L’amore per l’avventura non si traduceva in azioni, ma trovava sfogo, mai appagato mai appagabile, nell’avidità con cui divora trenta libri di Balzac, uno dietro l’altro, sorprendendo anche se stessa.

Una lettrice insaziabile, infaticabile, ma – si badi – non onnivora, bensì selettiva, anche perché ha sempre dormito poco: «Le notti erano per me ore e ore di lettura, a volte come nel collegio fiorentino, lo facevo di nascosto, sotto le coperte a lume di una piccola torcia».

Altro episodio, significativo dell’amore per gli animali, è l’incontro con una ranocchia, colorato da un’aura poetica, divertita e gentile: «Mi sono fermata sentendo che gracidava a voce bassa e tenera. Ho aperto le dita e la ranocchia è rimasta ferma sul mio palmo a gracidare mentre io puntavo gli occhi su di lei. La sua gola palpitava, i suoi occhi strabuzzati erano pieni di paura. Ci siamo intese. Ho pensato che era nella mia stessa situazione di angoscia e dipendenza e l’ho lasciata andare posandola delicatamente sull’erba».

Domenico Franciò

lunedì 15 agosto 2022

Ricordo di Vincenzo Leotta

 

In questo nostro tempo, in questa società in cui tutto procede a ritmi vertiginosi, che lasciano poco spazio al ripensamento, cioè ad una sosta, una pausa, per riflettere, per fare il punto della situazione, prima di proseguire in questa dissennata corsa verso non si sa dove e verso non si sa che, Vincenzo (per il sottoscritto Vincenzino) era uno che aveva idee estremamente chiare. Aver idee chiare significa obiettivi da realizzare, mete da raggiungere, e non in un futuro più o meno vago e fumoso ma hic et nunc, qui e ora. Con ciò metteva in pratica, a mio vedere, una delle tante auree massime latine, l’age quod agis, che ti esorta ad agire, qualsiasi cosa faccia, col maggior impegno possibile, al limite delle possibilità.

Vincenzo Leotta e Domenico Franciò


Amatissimo insegnante, di quelli che, come vuole l’etimo, lasciano il segno, ha svolto la sua attività prevalentemente al ginnasio, la cattedra in assoluto più pesante (italiano, latino, greco, storia e geografia), ma anche quella che offriva le maggiori possibilità per incidere sulla formazione dei ragazzi, sia per quanto riguarda la loro crescita culturale, sia per quanto attiene alla loro crescita umana. Le due cose non procedono ognuna per conto proprio, lungo percorsi paralleli, ma, in un insegnante che si rispetti, vanno avanti di pari passo, interagendo e integrandosi armoniosamente.

L’uomo di scuola è anche uomo di libri, una persona che ama tenersi aggiornato, à la pàge, come si dice, e che, di là dal lavoro scolastico che si porta a casa (temi, versioni, compiti insomma da correggere e valutare), non si chiude nella classica torre d’avorio, ma ama decisamente coltivare i rapporti interpersonali.

Leotta, fatta amicizia con Giovanni Raboni, noto critico letterario, non che poeta di suo, collabora con lui ad un lavoro filologico puntuale, rigoroso, in una parola scientifico sull’opera poetica di un grande siciliano, quel Bartolo Cattafi, che, a Milano, faceva il pubblicitario prima di imporsi all’attenzione critica con smilzi ma sostanziosi volumetti di una poesia asciutta, scabra, quasi rastremata.

Anche per suo merito, dunque, il poeta barcellonese ebbe nell’Olimpo poetico siciliano il posto che meritava: accanto ai Lucio Piccolo, ai Leonardo Sciascia, ai Vincenzo Consolo, ai Federico de Roberto – non ci si sorprenda che in questo elenco figurino prosatori, dato che anche la prosa può assurgere a poesia, e di grande livello e qualità, in tutte le sue infinite epifanie, secondo quanto abbiamo appreso da Croce. Per non parlare dell’ormai classico Verga.

Vincenzo era profondamente religioso, non era di quei cristiani buoni solo per infoltire statistiche, non di rado distorcenti e fuorvianti. Quando il male del secolo lo aggredì con sistematica devastazione, egli, in seguito alla nascita di una nipotina da parte dell’amatissima figlia Serena, trovò l’ispirazione per dei versi di toccante intensità e umanità. I più belli, a mio avviso, che abbia scritto, e da qualsiasi punto di vista, all’interno di una produzione poetica, peraltro, di una certa consistenza. E non mi pare di esagerare se aggiungo che vi ha riversato a pioggia la sapienza del cuore.

In cielo avrà raggiunto la madre, una mater dolorosa, che, vistasi strappare da un momento all’altro la figlioletta in un giorno che doveva essere di festa per l’ingresso liberatore delle truppe anglo-americane – la bambina, sportasi per vedere più da vicino, sfuggita di mano proprio a Vincenzo, era stata falciata da una camionetta – per il resto della sua esistenza non riuscì in quella che viene chiamata elaborazione del lutto, tanto era soverchiante il suo strazio.

Vincenzo Leotta e Domenico Franciò
Nel cercare di dare il senso della complessità e della ricchezza umana di Vincenzo Leotta, farei torto alla sua memoria se non accennassi a una sua peculiarità. Pur essendo consapevole del suo valore – poteva non esserlo? – era dotato di una qualità assai rara tra gli intellettuali o sedicenti tali: quella di saper riconoscere i propri limiti – che, dopotutto, altro non sono che i limiti di ogni essere umano: il sentimento dell’umiltà.

Sapeva dunque riconoscere i meriti altrui, e, quando se ne presentava l’occasione, dava loro il massimo risalto. Una volta, infatti, mi confessò che in lui era scattata la molla dell’emulazione, la voglia di far poesia, allorché, rovistando fra le mie carte cui aveva libero accesso, era stato quasi folgorato dal verso di una mia poesiola giovanile: «nella notte, un cane lacera le sue ore».

Vincenzo Leotta era incapace di bugie. Si capisce allora perché la menzogna distasse da lui anni-luce.

Credo proprio che il mondo della cultura e, tout court, il mondo, con la sua scomparsa, si sia ritrovato ancor più povero.

Domenico Franciò

venerdì 12 marzo 2021

Ripensamenti e rimpianti

 

Se mi si chiedesse di riassumere nel modo più conciso quali siano le cose più importanti per la nostra vita, non avrei un attimo di esitazione nell’indicare il “sugo”, come avrebbe detto il buon Manzoni, della nostra vicenda esistenziale, con concetti espressi da due parole, entrambe comincianti con la lettera r: rimpianto e ripensamento.

Di quest’ultima parola sono debitore a Augusto Mancini, maestro in quel di Pisa del mio indimenticabile professore di liceo Giovannino Brancato.

Mancini, nell’ultima pagina della sua letteratura greca, sotto l’aspetto stilistico alquanto ardua per pivellini teneri denti liceali, concludeva così: «La vita è in gran parte ripensamento».

Fermiamoci, e cerchiamo di tirar fuori dalla riflessione il massimo che ci sia consentito.

Ripensare significa tornare a pensare qualcosa a cui in precedenza abbiamo rivolto l’attenzione, e di sicuro verranno fuori aspetti che in un primo momento c’erano sfuggiti.

Ripensare dunque è una pratica d’igiene mentale quanto mai valida per mantenere vivi, mobili, vivaci cervello e cuore.

Certo, il ripensare può portare a rivivere, o mantenere in vita, accadimenti che ci hanno fatto male, che ci hanno ferito, talora in modo così profondo da generare un vulnus non sanabile, per quanti sforzi si faccia.

In linea di massima, tuttavia, se gli anni ci hanno fornito un congruo numero di anticorpi per far fronte ai reiterati assalti del virus doloroso dei ricordi, si può, senza cancellarne la memoria, attenuarne l’impatto.

L’altra parola invece sarebbe gran fortuna per noi se sparisse dal vocabolario e squagliasse come neve al sole meridiano pallido e assorto.

Per esperienza personale non conosco cosa che procuri e lasci tanto amaro quanto il rimpianto.

– Avrei potuto fare questo, e non prendere quella decisione che si è rivelata sbagliata, e che tante sofferenze ha causato. Le cose in vece di prendere quel verso, avrebbero potuto prenderne un altro, e andare, insomma, diversamente da come sono andate. E via di questo passo.

Col lagnoso rimpianto, mai costruttivo, sempre distruttivo, per non farla lunga e rischiare di infliggere una noia mortale in chi ci legge, c’è poco da fare. Con tutta la buona volontà di questo mondo, raramente se ne esce. E, ammesso che si abbia la fortuna di venirne a capo, sicuri non si può mai essere che non ritorni con maggiore veemenza e virulenza. E più dolenti aculei.

Domenico Franciò

mercoledì 19 agosto 2020

Lettera a Silvana Mangano (in memoria)

 Carissima Silvana,

credo che nell’immaginario collettivo sia rimasta una delle icone del cinema italiano, tu che della tipica bellezza mediterranea, e, in particolare, italiana sei una delle più rappresentative.

da iodonna.it

La tua carriera, agli inizi, non differisce granché da quella di tant’altre giovani donne, che, consapevoli della propria bellezza, si prefiggono una elevazione del livello socioeconomico. Di qui la partecipazione ai concorsi di bellezza su scale cittadina, regionale, nazionale (“Miss Italia”) è d’obbligo.

Il regista De Santis, in cerca della protagonista del film che aveva in animo di girare, aveva già fatto decine di ‘provini’ senza trovare quel che faceva al caso suo.

Il film sarebbe stato ideologicamente di sinistra, intendeva cioè denunciare all’opinione pubblica la condizione delle mondine della Val Padana, che, sottoposte a un lavoro massacrante, erano sottopagate: uno sfruttamento vero e proprio, perpetrato su giovani, determinatissime a portare a casa un tozzo di pane.

Pare, se non ricordo male, che un provino l’avesse fatto pure a te. T’eri presentata con i capelli gonfi, cotonati: venisti immediatamente scartata. Senonché – quando si dice il caso o il destino, vallo a sapere – lo stesso regista ebbe una sera ad incontrarti per strada, una serata da diluvio universale: i capelli, del tutto lisciati, misero nel dovuto risalto il bellissimo, luminoso tuo volto.

Non c’era più motivo di cercare: scelta fatta, la protagonista di Riso amaro era stata trovata.

Si era negli anni a ridosso della seconda guerra mondiale. L’Italia tutta, dall’Alpi al Lilibeo, percorsa da fermenti, fremiti, slanci di vitalità, dopo avere attraversato tutte le sofferenze, i patimenti, le ristrettezze che la guerra, ogni guerra, comporta, aveva una voglia matta di rialzarsi, risorgere, riprendere una vita normale, tornare alle vecchie abitudini, e, insieme, imprimere un avviamento nuovo, anzi una svolta alla propria storia.

La tua immagine di florida ventenne (avresti fatto parte del gruppo ristretto delle cosiddette ‘maggiorate fisiche’ insieme alla Lollo, alla Loren, alla Pampanini e a quant’altre) che balla nell’aia, con un fil di fieno tra i denti, uno sfrenato boogie-woogie, ancheggiando sinuosamente e seduttivamente, occhio malizioso promettente chissà che delizie, col bieco bandito Gassman, dal volto appena difeso da un cappellaccio, è di quelle scene destinate a diventare oggetto di culto da parte degli appassionati.

Il film ebbe uno straordinario successo e, come si dice in gergo, sbancò ai botteghini. Anche se lo stesso regista, rivelando un notevole spirito autocritico, parlò di un «fumettone».

Di lì in poi la tua carriera cinematografica ebbe il vento in poppa, e passasti di successo in successo.

Negli anni la tua bellezza prorompente si era affinata, il tuo viso s’era fatto quasi etereo, d’una luminosità tutta sua.

Chi non ricorda “arriva il negro zumbon che balla allegro il bajon”, dove prestavi i moti ritmici del tuo splendido corpo alla voce cristallina di Flo Sandon’s.

Hai conosciuto i più importanti registi e sei diventata una star internazionale. Tutto questo, tuttavia, non reggeva con l’attitudine a vivere una vita familiare serena, con tuo marito, l’importante produttore napoletano De Laurentiis, e coi tuoi tre figli, due femmine e un maschio.

Ma il destino era in agguato, pare non aspettasse che il momento buono per riscuotere a prezzo maggiorato la gioia, la felicità che t’era stata data. Gli antichi greci avrebbero trovato al riguardo una riprova dello φθόνος τῶν θεῶν, l’invidia degli dei: quasi che essi non ce la facciano proprio a sopportare che un mortale sia di loro più felice.

Accadde l’ineluttabile. Nell’aereo che andò a schiantarsi al suolo c’era tra i passeggeri il tuo amatissimo figlio ventenne.

La “elaborazione del lutto”, di cui si parla e, a volte, si straparla, in casi come questo, non fu lunga. Fu eterna. E minò la tua salute alla radice, in modo irreversibile.

Per te, che avevi già accusato degli scompensi cardiaci (un cuore capriccioso, piuttosto ballerino), fu il colpo di grazia, quello definitivo che si dà in una esecuzione capitale, per sincerarsi che la morte sia effettivamente sopraggiunta.

Bellissima (bellissimo anche il nome, evocante il verde della silva), bellissima e sventurata, tu, Silvana mia, hai un posto privilegiato nel mio cuore. Che t’ama, t’ama, t’ama. D’un amore disperato, dolente, folle.

Domenico Franciò

mercoledì 15 luglio 2020

Fratello in Cristo


Stando alla mia esperienza, ma suppongo che faccia parte del vissuto di tantissime persone, almeno di quelle che hanno, per formazione culturale e vicende esistenziali, un non trascurabile diciamo tasso di sensibilità e di consapevolezza, ci sono dei momenti in cui due persone vivono un attimo di straordinaria intensità emotiva, quasi un flash, che però il bulino incide sulla tavoletta di cera e consegna allo scrigno, preziosissimo, dei tuoi ricordi, dai quali puoi, tutte le volte che ti vien voglia, estrarli e riviverli.
Ci sono amicizie che non hanno una durata, uno svolgimento che superi l’éspace d’un matin: eppure, esse non hanno, per quel che mi è dato di pensare e sentire, nulla da invidiare alle amicizie che si alimentano di lunghe frequentazioni, o che, anche in absentia, son lì: salde, sicure, una fonte di bene a cui sai di poter attingere in qualsiasi momento. L’amicizia, insomma, la vera, autentica amicizia, si sottrae alla legge inesorabile del tempo, non basa la sua forza sui soliti parametri, e non prevede, né tantomeno esige, misurazioni col bilancino.
Mi accorgo che, come prodigo, la sto facendo troppo lunga e mi affretto a correre ai ripari, voglioso di concretezza e di consistenza.
Da giovane professore, per una decina e forse per più anni, facevo parte, nel torrido e canicolare luglio, come esaminatore di latino e greco, di commissioni preposte agli esami di maturità.
La sede da me preferita era Catania, con i suoi gloriosi licei “Cutelli” e “Spedalieri”. Ad essi spesso si univano licei privati, gestiti da religiosi.
Premetto che ero allergico alle raccomandazioni, che spesso però, per salvare la faccia del raccomandante, si presentavano sotto le mentite spoglie della ‘segnalazione’, quasi fosse una questione nominalistica e non fosse, come era in effetti, qualcosa che non si accordava o collimava con la giustizia scolastica.
Un prete, dunque, mi raccomanda un ragazzo: lo fa, de visu, con una serietà, una gravità che colpiscono: il giovane esaminando viveva un momento difficile, e aveva bisogno, come si dice, di una mano d’aiuto: altrimenti si sarebbe spenta la luce e sarebbe stato per lui buio, buio pesto. Il tono sofferto, la evidente sincerità mi tolsero ogni residuo di perplessità.
Feci di tutto per mettere a suo agio il giovane, che, rinfrancato, superò la prova con una sua dignitosità.
Al momento di congedarci, entrambi perfettamente consapevoli che non ci saremmo mai più rivisti, nell’abbracciarmi mi disse: – Franciò, fratello in Cristo.
Domenico Franciò

venerdì 10 aprile 2020

Recensione a Eugenio Scalfari, “L’ora del blu”


Nella poliedrica personalità di Eugenio Scalfari non mi par dubbio che la parte razionale, raziocinante, insomma intellettualistica, prevalga, e non di poco, su quella emotivo-sentimentale. Ma ecco la sorpresa, lo spiazzamento, il tiro birbone che il buon Scalfari ti gioca: egli è un poeta, uno che sa maneggiare gli strumenti dell’arte, ossia quelli ritmici, rimici che lo apparentano agli altri, ma che accampa anche il diritto ad una ἀναγνώρισις, riconoscibilità, a una sua precisa identità. Egli, in altri termini, non ha potuto non rispondere a una chiamata, a una ‘vocazione’, a una necessità intima, che gli imponeva di entrare nell’agone poetico. Non – sia chiaro – in competizione con altri, ma per una urgenza, una cogenza, una scommessa fatta ante omnia con se stesso, cui non poteva in nessun modo sottrarsi o rinunciare, pena la mutilazione di una parte viva di sé.
La poesia, ogni autentica poesia ha il suo background, il suo retroterra o, se più piace, la sua humus, in una visione della vita, in quella che i tedeschi chiamano Weltanschauung; visione, appunto, che non può non tener conto di quanto la vita nostra sia fatta di aleatorietà, di precarietà; come essa sia intrisa usque ad medullas del sentimento dell’effimero, del caduco cui vanno inesorabilmente incontro le umane cose: le nostre azioni, le nostre emozioni, e commozioni, i nostri affetti, in una parola tutti i sentimenti nostri.
Quanto detto credo sia indiscutibile, e contrassegna tutta la storia, pressoché millenaria, della poesia.
Guardare con occhi asciutti la realtà quale essa è, è proprio dei coraggiosi, di coloro che non cedono alla seduzione delle facili illusioni e che, ciò nonostante, non si rassegnano a non inseguire, perseguire un loro sogno, un solacium (conforto), perfino uno spicchio di felicità.
La cosa che d’acchito, accostandosi a questi versi, salta agli occhi è la congruenza, la convergenza e l’accordo tra forma e contenuto.
Il contenuto – per avvalerci di un trito scolasticume, ma che qui per comodità viene a taglio, e confidiamo non senza una qualche efficacia – non è mai banale, quanto dire scontato.
Dalla realtà il poeta trae infatti aspetti inediti, insospettati, quelli che sfuggono ai più, rimanendo inosservati.
È questo, se non m’inganno, l’aspetto cognitivo, gnoseologico del ποιεῖν, che, con gli accorgimenti, le trovate, gli adescamenti e incantamenti suoi propri, ci porta ad arricchire il nostro mondo interiore, ciò che, in fin dei conti, veramente vale. È così che l’ordinario, l’essere proclivi alla abitudinarietà routinaria, riceve un contraccolpo perfettamente proporzionato alla potenza che il poeta è in grado di esprimere.
La nota di accorato struggimento che, come un basso continuo, connota questa poesia, rende certi dell’amore totale, meglio totalitario, portato alla vita; anche se, tirate le somme, abbozzata la partita doppia del dare e dell’avere, il dolore e la sofferenza prevalgono, e, in misura considerevole, sui fugaci momenti di gioia.
Lo stupor, la stupefazione per il mistero che avvolge da ogni lato è un altro aspetto che immette Scalfari in una più che secolare tradizione.
Poteva essere altrimenti? Un poeta, un poeta che si rispetti, non può non essere colto, non può non essersi nutrito dei succhi più vitali della cultura poetica: egli, con più o meno di consapevolezza, trasceglie di codesta tradizione quel che più fa al caso suo, che risponde ad una sua intima esigenza, e la intride, colora, permea della sua personalità.
Dal punto di vista tecnico-formale (senari, settenari, quinari, e soprattutto endecasillabi) siamo nel vivo della tradizione, in quel che di durevole comporta.
Sub specie contenutistica si è di fronte a una vera e propria visione del mondo. Che è di Scalfari e di nessun altro.
Essendo un non credente, egli ha una concezione sostanzialmente nichilistica; a proteggerlo però dagli effetti perniciosi, per non dire disastrosi, di tale non-credenza che quella non può non implicare, è proprio la sua poesia. Giacché ogni poesia, dalla grande alla minima, ha questo di peculiare: che è sempre, in ogni caso, altrice, motrice e matrice di vita, di vitalità, perfino di felicità, sia pure venata di una lieve, dolce, soffusa malinconia.
I ricordi più belli riportano all’infanzia, a quei natali che lo vedevano insieme alla madre «Deporre il bambino / nella mangiatoia / e l’asino e il bue / lo riscaldavano col fiato / e i pastori intorno / e la cometa che tracciava nel cielo / l’avvento del miracolo».
Due note finali.
Come mai la silloge ha per titolo L’ora del blu.
A nostro sommesso avviso, la ragione prima, la più ovvia, è un centone di citazioni insistenti su tale colore: svariano da Ungaretti, Montale, Quasimodo a Saffo, all’anonimo del Pervigilum Veneris, a Garçia Lorca.
È che, muovendosi tra cielo e mare, il blu non poteva non essere il colore dominante; che d’altra parte non si tratta di un colore aggressivo, squillante, prepotente come il rosso: esprime una pacatezza, oseremmo dire una dolcezza, che sono una conquista – e, come tutte le conquiste, faticosa, sofferta ancorché piacevole e appagante – della maturità di Eugenio Scalfari.
In definitiva, una poesia che riassume, come meglio non si potrebbe, che cosa è l’uomo, in che consiste la sua humanitas; e si risolve in una esaltazione della creatività, l’unico mezzo di cui disponiamo in grado di vibrare il colpo decisivo all’infelicità nostra.
La poesia Amapola rievoca uno di quei ricordi custoditi nel geloso scrigno della memoria. Quella canzone degli anni Quaranta, portata al successo da Rabagliati, in cui ricorre la frase “lindissima Amapola”, io la interpretavo alla stregua dell’imperativo categorico kantiano, vale a dire: ama Pola.
E non posso sottacere, a questo punto, l’allusione a un’altra canzone, assai in voga in quegli anni, Blue Moon, “Luna malinconica”: con quei versi finali così struggenti che condensano, come meglio non si potrebbe, il senso della nostra vita: «Tu sei un sogno infinito / che con noi se ne andrà, / dolce argento di luna».
Domenico Franciò

lunedì 4 novembre 2019

Lettera a Carlo Borromeo (in memoria)


Nella forza dell’imperativo morale non ci sono, alla fine, dei motivi – perché a quel punto dovremmo ancora spiegare perché valgono, e così all’infinito – ma una specie di “fascinazione”, qualcosa di molto simile all’innamoramento.
Gianni Vattimo


Carissimo,
sto leggendo quanto il cardinale Dionigi Tettamanzi, che da arcivescovo ha retto l’arcidiocesi di Milano, ha scritto sul tuo conto in base alle luminose, precise, concrete, mai esaurienti omelie, da Giovanbattista Montini, divenuto nel tempo pontefice – e che avrebbe, anche lui, avuto accesso alla gloria degli altari – pronunciate, facendosene, in certo senso, (autorevole) biografo, e, verrebbe voglia di aggiungere a scanso di equivoci, non agiografo, se per agiografia si intende una biografia mitizzata, al limite del leggendario, dove tutto quanto si dice sia a dimensione unica, monologica e del tutto conforme a quel cliché che vuole la santità magnificata a tutto tondo, e con tratto manicheo: col bel risultato che il lettore avvertito, addestrato a pensare con la propria testa e poco, anzi per nulla propenso a portare il suo cervello all’ammasso, non giungerebbe alla fine dello scritto senza aver naufragato nel montante mare magnum della noia.
Montini, nelle sue omelie, ha messo in luce due aspetti, non opposti ma integrantisi a vicenda, ognuno dei quali esige giusto approfondimento per portare alla luce quanto di innovativo, di inedito, di originale, e dunque di personale, si lega alle modalità con cui hai vissuto la vita, e, in particolare, comunicato a fatti e non con parole, e cioè col linguaggio trasparente e convincente dell’exemplum, quale fosse il tuo atteggiamento nei confronti della propagazione del verbo di Cristo.
Non era da te la misura mediocre, quella della virtù che si barcamena tra i contrari, appostandosi infine nella via di mezzo. Non eri, in una parola, per l’oraziana aurea mediocritas. Eri uomo di eccessi, di prepotente e indomabile vitalismo, che ti faceva avanzare lungo la strada scelta senza dubbi, tentennamenti, perplessità.
Il tuo non era il comportamento bonario, indulgente, tollerante con cui un san Filippo Neri addolciva i tratti duri, spigolosi, difficoltosi della sequela Christi, anche se anche lui non rifuggiva certo dall’ascesi penitenziale. Tutti ricordiamo il suo invito a far buon viso a qualche costatella con correlativo auspicio “e che buon pro vi faccia”.
Eri severo, austero, intransigente con la tua gente, ma, innanzitutto, con te stesso.
Dalla tua concezione cristiana della vita bandivi ogni forma che minimamente sapesse di edonismo, di abbandono ai piaceri, di qualunque genere fossero, a qualunque raggiungimento aspirassero. Non eri propriamente quel che si definirebbe lassista o permissivista.
La simpatia non faceva parte dei tuoi tratti salienti.
Non era nelle tue corde promuovere una santità da conseguire individualmente, ma una santità che coinvolgesse il maggior numero di persone: quasi si direbbe una santità di massa, se la qualificazione non suonasse alle nostre orecchie con l’allure inconfondibile dello sprezzo e della condanna. Ideale altissimo il tuo, per la cui realizzazione hai speso il più e il meglio delle tue energie fino a morirne. Ad una età che oggi sarebbe considerata scandalosamente prematura.
Certo, qualsiasi vicenda umana, per capirla a fondo, va contestualizzata, va, cioè, inserita in un contesto sociale, comunitario, in grado, sia pure parzialmente, di renderla comprensibile, decifrabile.
La domanda chiave, cruciale, alla quale non intendiamo, non vogliamo, né possiamo sottrarci di rispondere, è la seguente: è attuale la tua esperienza? Ha ancora qualcosa da dire, da insegnare al cristiano odierno, agli uomini tout court? Oppure, au contraire, essa rimane confinata a una determinata temperie storica, e quindi irripetibile, intrasferibile, e, in definitiva, per noi lettera morta?
Al netto delle circostanze storiche , ineludibili e intrascurabili, noi riteniamo, fermamente riteniamo che il tuo messaggio – non si tema di usare la parola, fini troppo usata in passato e perciò depauperata, dispoliata della sua intima vis semantica – abbia tuttora una sua validità. Vale a dire una verde, perenne primavera.
Ci piace terminare con un giudizio di Montini, che ci pare condensi, cogliendone la peculiare essenza, il profilo di un santo così singolare, costituente un unicum nella storia bimillenaria, aperta da poco al terzo millennio, della Chiesa: «Nella esortazione del suo primo Sinodo provinciale, san Carlo ammonisce se stesso e i vescovi convenuti, ricordando che patres, non domini sumus (siamo padri non padroni). Perciò a noi Egli rimane come l’esempio ideale del riformatore, che ha l’arte di concepire la norma dell’agire altrui, la forza di persuasione e di comando per imporre tale norma alla volontà degli altri, la costanza per renderla ferma e generale, la severità per incutere salutare riverenza e timore, il coraggio per sostenere le opposizioni e l’impopolarità della sua audace intolleranza verso gli abusi ed i disordini, la bontà di dirigere come si conviene a pastore ed a padre, la pietà che sa compatire e perdonare, e la santità infine che fa del governo un servizio al prossimo in virtù dell’amore di Dio».
Domenico Franciò