Se
non si tiene conto della dichiarazione di intenti dell’autrice in premessa a
questo libro (Vita mia di Dacia Maraini, Rizzoli 2023), ci si preclude
la piena comprensione del contesto esistenziale degli anni durante i quali
un’intera famiglia vive in un campo di concentramento giapponese, alle prese,
giorno dopo giorno, quasi uno stillicidio, con le difficoltà, le criticità, le
urgenze che altri esseri umani infliggono ai Maraini, in concomitanza con
calamità naturali, come, ad esempio, i terremoti.
La
scrittrice, che nei precedenti libri non aveva che rapidi cenni agli
anni drammatici vissuti nei campi di concentramento in Giappone, decide di
affrontare di petto il racconto di vicende dolorose che ne hanno,
indelebilmente, e comprensibilmente, segnato la vita.
Nella premessa, dunque, la scrittrice afferma giunto il momento della narrazione, che
per lei costituirà, sperabilmente, una vera e propria liberazione da un
fardello, fattosi insostenibile, di vicende dolorose, drammatiche, non di rado
al limite della tragedia, se non tragiche.
Come
mai, per che cosa – ci si chiederà – i Maraini si trovano alle prese con una
situazione che mette in gioco, al fine di sopravvivere, tutte le risorse sia
fisiche sia psichiche, oltre che socioculturali, di cui dispongono e si
avvalgono.
Tutto
nasce dal fatto che il Giappone entra in guerra, alleata dell’Italia fascista e
della Germania nazista.
I
protagonisti, prevalentemente, e ovviamente, gli adulti, anche se le piccole
sorelline Dacia e Toni non si trovano dietro le quinte della narrazione, per
essersi dichiarati antifascisti, vengono destinati a un campo di
concentramento.
Il
padre, Fosco, antropologo, si era brillantemente segnalato per avere indagato,
studiato e penetrato profondamente la cultura di cui era innamorato: la cultura
giapponese. Il Giappone non aveva – si può dire – segreti per lui. Certo, a
differenza della moglie, il rigore scientifico delle sue ricerche lo portava ad
eccessi di razionalità, che lo rendevano refrattario ai sentimenti. Ciò facendo,
si inibiva, per lo meno in parte, la comprensione di situazioni che avevano
bisogno di essere interpretate all’interno di una cornice fatta di sentimenti.
Il
profilo che viene fuori è di un uomo dalla forte personalità, in grado di
prendere, quand’era necessario, decisioni lì per lì, senza tentennamenti e
perplessità, senza scoraggiarsi, o – peggio – disperarsi. Un decisionista, in
altre parole.
Spiccato
il sentimento della dignità umana. Allorché questa viene intenzionalmente
umiliata e offesa, non esita a tagliarsi un dito della mano e a gettarlo in
faccia a chi l’aveva personalmente offeso e, insieme, insultato un popolo, gli
italiani, qualificati come vigliacchi e traditori.
No,
era impossibile, e nemmeno immaginabile, che Fosco potesse soffrire questo
oltraggio alla sua italianità.
Topazia,
la moglie, una nobildonna dell’aristocrazia palermitana, dotatissima di senso
pratico, faceva da contrappeso con la sua saggezza: il suo innato, ma anche
coltivato, equilibrio, per la velocità di pensiero le consentiva di individuare
in un attimo il nocciolo delle questioni e delle situazioni, e la maniera di venirne
a capo. In più occasioni, ha modo di esprimere questo aspetto non irrilevante della
sua personalità. Quando, ad esempio, durante una gita in barca, sottrae a morte
certa la figlioletta Dacia.
Succede
che uno degli amici, durante una battuta di pesca subacquea, non si accorge che
la fiocina, invece di infilzare la preda, sta, di contrabbalzo, per trafiggere
Dacia. Topazia, con uno spintone, le imprime la giusta deviazione.
Topazia,
oltre a immergere. con i suoi racconti, le sue bambine in un mondo fatato, favoloso,
fiabesco, dove non c’è posto per la sofferenza e il dolore, ma tutto è gioia, joie
de vivre, di godersi la vita, era esperta nell’arte del cucito.
Quando
le viene messa a disposizione una macchina, risolve di ingraziarsi le occhiute
guardie rimettendo a posto le loro divise.
Dacia
ha deciso di non mangiare più carne dopo avere assistito allo sgozzamento di
una pecora, peraltro sotto lo sguardo impietrito e “lagrimoso” di un’altra
pecora, cui sarebbe toccato da lì a poco lo stesso trattamento.
Lasciamo
la parola alla scrittrice: «La pecora si è dibattuta spalancando la bocca da
cui non usciva più alcun suono. […] Da ultimo ha tirato fuori una piccola
lingua rossa come per salutare con uno sberleffo il suo assassino. […] Ho
pensato a tutto il dolore che infliggiamo alle bestie e mi si è stretto il
cuore».
Altro
argomento che sollecita, alimenta la sua fantasia è lo spirito avventuroso. L’amore
per l’avventura non si traduceva in azioni, ma trovava sfogo, mai appagato mai appagabile,
nell’avidità con cui divora trenta libri di Balzac, uno dietro l’altro,
sorprendendo anche se stessa.
Una
lettrice insaziabile, infaticabile, ma – si badi – non onnivora, bensì
selettiva, anche perché ha sempre dormito poco: «Le notti erano per me ore e
ore di lettura, a volte come nel collegio fiorentino, lo facevo di nascosto,
sotto le coperte a lume di una piccola torcia».
Altro
episodio, significativo dell’amore per gli animali, è l’incontro con una
ranocchia, colorato da un’aura poetica, divertita e gentile: «Mi sono fermata sentendo
che gracidava a voce bassa e tenera. Ho aperto le dita e la ranocchia è rimasta
ferma sul mio palmo a gracidare mentre io puntavo gli occhi su di lei. La sua
gola palpitava, i suoi occhi strabuzzati erano pieni di paura. Ci siamo intese.
Ho pensato che era nella mia stessa situazione di angoscia e dipendenza e l’ho
lasciata andare posandola delicatamente sull’erba».
Domenico Franciò