Il destinatario di questa “lettera” incalzante e agguerrita è
l’insegnante della scuola media, inferiore e superiore: la scuola
dell’adolescenza. E l’adolescenza, età difficoltosa quant’altre mai, è
sostanzialmente – lo conferma l’etimo – crescita, vale a dire mutamento per
salti e metamorfosi. E dunque compito primario della scuola è, in un delicato
passaggio che induce spaesamento e ricerca spasmodica di identità, insegnare a vivere. È questo – possiamo
affermare – il leitmotiv del libro, ciò che detta all’autore accenti di rara
intensità. Senza questo obiettivo la scuola è solo un’istituzione assurda e
crudele che produce effetti dannosi, e talora perfino catastrofici. Una scuola immotivata
che non susciti interessi conoscitivi e non accenda emozioni, e sia anzi iniqua
e ingiusta, piatta e noiosa, cinica e beffarda, può anche… uccidere. E non solo
per metafora. La “dispersione scolastica” è una strage vera e propria: tante
crocette dovrebbero essere appese alle pareti scolastiche ad attestare l’esito
infausto di un mandato educativo tradito. È all’emarginazione che si deve poi quella
insopportabile infelicità di fondo che induce adolescenti fragili e a
fortissimo disagio esistenziale a togliere… il disturbo: o con un suicidio
mascherato (vedi incidenti stradali) o con un atto deliberatamente
autodistruttivo.
Ora, perché la scuola sia umana ed educhi all’impegno serio e costruttivo
è necessario sostituire alla egemonia dell’io, imperante nella società della
lotta e dell’esclusione, il gruppo, la classe, il “noi”. Occorre perciò
recidere in radice lo spirito competitivo impiantando e alimentando il
sentimento della solidarietà, il piacere della ricerca comune, un po’ come
avviene, ad esempio, in una squadra di calcio o in una orchestra. Spariscano
perciò i voti, scompaia l’odiosa figura del cosiddetto primo della classe, e si
favorisca una collaborazione capace di promuovere senso di appartenenza e
partecipazione ad un progetto condiviso. Ad evitare poi un, come si dice, appiattimento
o livellamento in basso ci penserà l’insegnante: che traendo il meglio da
ciascuno, costruirà – estirpata la malerba dei favoritismi, delle frustrazioni,
del dolore – una comunità serena, gioiosa, giusta. I talenti degli allievi
verranno messi a servizio, e a profitto, del gruppo-classe. Tutti andranno
incoraggiati, nessuno verrà mortificato, di ognuno cercando di salvaguardare il
bene prezioso dell’autostima personale. La scuola sarà così messa in grado di opporre
un modello di vita alternativo alla società dell’attimo, del dissennato e
offensivo spreco di risorse, cose e persone.
Ma – ci si chiede – come deve essere in concreto l’insegnante cui
spetterà di realizzare, operando da catalizzatore, questa inversione di rotta? Dopo
aver delineato una ricca tipologia negativa (il cattivo, il minimalista,
l’ingiusto, il narciso, il tipo da palcoscenico, il samaritano) si arriva ad
una conclusione apparentemente contraddittoria. L’insegnante ideale è l’insegnante
“imperfetto”. Sebbene abbia delle certezze profonde e un chiaro orientamento
interiore egli ha insieme coscienza netta dei suoi limiti, e per questo non è
affatto impermeabile al dubbio. Quest’ultimo però, non che difetto, è un pregio
decisivo che lo preserva dalla tabe del fanatismo tenendolo sulla corda della
continua ricerca, dell’apprendimento costante. Un buon insegnante – afferma con
sicurezza l’autore – è un “ottimo studente” che offre ai suoi allievi un
esempio trainante di impegno e dedizione.
Ma – domanda cruciale – si può davvero insegnare a vivere? Si può. Qualora
ci si renda conto, e mai si dimentichi, che l’affettività a scuola deve avere un
posto, un’importanza, un riguardo almeno pari all’intelligenza. Solo così sarà
possibile attingere un vero sapere, che “non è un orpello, una
decorazione, ma uno strumento per vivere”.
La scuola del passato aveva una duplice funzione: informativa e
formativa. La funzione informativa è caduta ormai, quasi per intero, sotto il
dominio del progresso tecnologico. Ma la funzione formativa, quella che per
Andreoli coincide tout court con l’“insegnare a vivere”, continuerà ad essere
prerogativa della scuola. Ed è funzione, in un futuro più o meno prossimo,
sempre più importante, anzi decisiva: a patto, beninteso, che essa, la scuola, sia
attrezzata dell’indispensabile corredo critico e sappia come sollecitare le
forze creative. Indispensabile è però al riguardo che all’insegnante venga
assicurata piena libertà di movimento in fatto di programmazione e di esecuzione:
impedendo ai programmi ministeriali o regionali o d’istituto che siano di
costruire intorno a lui gabbie ossessive di astratte, prolisse precettistiche
che non tengono in considerazione alcuna l’unica realtà che conta, quella in
cui l’insegnante si trova in concreto ad operare.
Domenico Franciò
[Articolo apparso su La Scintilla del 4 maggio 2008]
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