La gente non ride più, non sa più
ridere. Sa solo sghignazzare. Che bella parola proprio non sembra col suo rimando
a ghignare e, in un circuito perverso, a ghigno come approdo fatale. Le
definizioni insistono sulla sguaiatezza a fine di scherno e derisione.
Guardiamo da vicino. Per
sghignazzare bisogna essere – ovvio – almeno in due, ma, se di più, è – si fa
per dire – ancor meglio.
A scanso di equivoci distinguerei
preliminarmente due tipi: gli sghignazzanti, che sono temporanei e occasionali
perché tutti, dico tutti, possiamo avere, o avere avuto, il nostro quarto d’ora
di sghignazzo; e gli sghignazzatori, che non sono né temporanei né tantomeno
occasionali e ingrossano a vista d’occhio. Ma non è solo per prendere in giro
che si sghignazza. Ogni occasione, ogni spunto sono buoni per una bella e lauta
sghignazzata.
Caratteristica principe del
fenomeno è senza dubbio l’iteratività. Sghignazzo infatti come palla di gomma
rimbalza dall’uno all’altro, da bocca a bocca, da ghigno a ghigno. È un contagio,
una gara infinita e accanita a chi lo fa più forte, cioè più marcato, cioè più
volgare. È come un pigiare, ricalcare, rincalzare a perdizione una nota
sgangherata e stonata.
Felici non sono gli sghignazzatori,
non hanno allegria dentro, né gioia o letizia, e dunque ciò che trasmettono è
solo tetraggine e disperanza. Non c’è brillio di luce nei loro occhi,
catafratti da opacità e trasudanti ebetudine. E questo perché? Ma perché non si
crede in niente, non si ha nessuna fede, nulla riscalda ed emoziona, non si
vuole il nuovo, si ha paura di tutto: non si guarda, insomma, al di là del
proprio naso e del proprio ispido, arroccato ‘particulare’. Quel che avvia il
motore può essere – spesso è – la sconcezza. Il primo Devoto-Oli reca a
corollario della definizione una sintomatica citazione dello scrittore Tobino
(Tobino? – Chi è costui?): «È sua gioia sghignazzare ogni sconcia parola».
Domenico
Franciò
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