«È religione anche non credere in niente» (Cesare
Pavese, La casa in collina)
La Crocifissione di Gesù (da Wikipedia) |
Quando Gesù
muore, il centurione, vista l’inermità e la mitezza con cui Gesù affronta la
morte, esclama: «Davvero costui era figlio di Dio».
A questo punto
Martini compie un cammino a ritroso per spiegare il processo psicologico che
porterà alla prima professione di fede davanti alla croce. È un processo lento,
fatto di tappe. Ad ognuna delle quali viene in chiaro qualcosina di più anche
se sfugge il senso complessivo dell’evento. Prima di tutto, trova
ingiustificato il livore e l’accanimento di quella imbestialita marmaglia che, urlando
pollice verso, vuole la morte di Cristo, preferendogli il ribaldo Barabba. Poi trasecola
addirittura al gesto pilatesco di chi, pur trovandolo al netto di colpa, non
trova di meglio che lavarsene le mani abbandonando l’innocente al suo destino
di morte.
Un personaggio
secondario, che ha avuto l’onore di portare per un tratto la croce di Gesù, è
il cireneo, che ha dato vita nelle lingue moderne a quel tipo d’uomo su cui
vengono, dai furbetti, furbacchini e furbacchioni scaricati i pesi e le
incombenze più gravi.
Nel centurione
comincia a farsi strada, a prendere corpo, poco per volta, la convinzione che
Gesù non sia un uomo comune, anzi comincia a sospettare che sia un essere
d’eccezione. Sicché, quando spira sulla croce e avviene quel tremuoto
rappresentativo e riassuntivo di uno sconvolgimento cosmico, quando il velo del
tempio è squarciato da cima a fondo, allora la luce della fede investe come
folgore il nostro e lo abbaglia. «Costui era davvero figlio di Dio», si ripete
il vecchio soldato, scosso e commosso tra lacrime di una gioia inesprimibile e
indescrivibile per una apertura di fede del tutto inopinata e imprevista.
Domenico Franciò
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