giovedì 6 marzo 2014

Coimbra



Ci sono voci, non molte in verità (Piaf, Nannini le prime a venire in mente), che afferrano alla gola e ti lavorano dentro senza lasciarti in pace. Quella di Amalia Rodrigues, regina del Fado, è tra queste. Ne parlo naturalmente non da competente musicale ma con l’esperienza d’ascolto di chi si è nutrito di musica fin da età tenerissima; e per il quale la musica è stata cosa non marginale o episodica ma sostanziale diletto, gioia, fascinazione.
La canzone che sto ora ascoltando mentre, correndo la Panoramica sud-nord, gli occhi sono presi, e come soggiogati, dalla visione numinosa e lucente dello Stretto, è “Coimbra”. Il primo ascolto non basta, il tumulto – emozione, felicità, un pizzico di strazio – è troppo grande perché pensi a privarmi di un piacere così intenso e a portata di mano.
Mi piace tentarne una descrizione. La voce pare inerpicarsi e slanciarsi sui vertici, su su per le cime per poi, con falcata discesa verticale. inabissarsi a valle. E provo piacere a chiarirmi al meglio anche la struttura.
Dapprima è un prologo appassionato che, in quanto tale, sai che non si esaurirà in se stesso ed è preparazione ad altro, d’altro. Avverti che si stanno gettando le basi sonore di qualcosa di grande, di magnifico, di liberatorio. Questo qualcosa poggia proprio su una pietra angolare, una parola misteriosa, “Coimbra”, termine e insieme principio di un canto a voce piena: flessuosa e dolente. Lasciandomi scivolare in fantasiose interconnessioni mentali ed emozionali accarezzo, per un surplus di commozione, l’esplosione gaudiosa dell’amore paterno nella sublime pagina del figlio prodigo o, forse meglio, del ‘padre prodigo’. Quel padre che, scorto in lontananza il figlio che ritorna a casa, viene colpito alle viscere (questo il senso del greco ἐσπλαγχνόσθη): viscere di gioia, di interminabile attesa, pregustamento di insostenibili felicità.
E mi rivedo quattordicenne sostare sulla scalinata da dove negli anni cinquanta, i primissimi cinquanta, si accedeva (si accede) al liceo Maurolico. Una scalinata monumentale che coi suoi due bracci sembrava, e sembra, disponibile all’accoglienza, un po’ – mi si passi l’azzardo – come il colonnato del Bernini a Roma.
Un compagno di classe, Vittorio, dalla contagiosa comunicativa napoletana, fischiettava con suprema agilità melodica un motivetto da cui pareva trarre particolare godimento e soddisfazione. Si trattava di… Coimbra.
Quant’acqua da allora sotto i ponti, quanta storia, quante storie. La diga, a questo punto, dopo un sinistro scricchiolio, cede di schianto: si aprono le cateratte. E un pianto tutto mi avvolge: forte e sommesso, di struggente tenerezza.

P.S. Rileggendomi, mi accorgo che non ho detto una parola, che sia una, sul significato della canzone. Il fatto è che delle parole ho colto quello che i linguisti chiamano il significante, l’altra faccia della medaglia essendomi preclusa. Di Coimbra ignoravo allora che fosse una città del Portogallo, l’Atene del Portogallo. E allora? Può una città suscitare, come persona viva, una tale passione interpretativa? Non so e non mi pare il caso di approfondire, anche se so di parecchie città fatte oggetto di amoroso canto. Fondamentale però mi sembra che l’onda musicale era per me, ieri e oggi, la prima e unica attrattiva. A distanza di sessant’anni quel caldo, dolente flusso sonoro mi ha, per un attimo eterno, invaso le viscere. Restituendo me a me stesso e riaffidandomi al feroce amore della vita.
Domenico Franciò

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