martedì 25 marzo 2014

Zdenek Zeman



Men of few words are the best men (Shakespeare)
Esiste un tipo d’uomo poco frequente, se non raro, alle nostre latitudini linguaiole e verbose. È di poche, spiccate, calibrate parole; alle quali dà, o restituisce, quel peso e quella qualità che le sottraggono alla comunicazione sciatta e precipitosa. Un fiero esemplare di questa nobile umanità è senza dubbio un allenatore tra i più discussi, vale a dire tra i più stimati e disprezzati, amati e detestati. È, insomma, il boemo Zdenek Zeman. All’indomani di una sua clamorosa vittoria alla “Scala del calcio”, il controllo perfetto, distaccato della situazione era assicurato da una parola che sembrava provenire dalle caverne del silenzio. Tra la domanda dell’intervistatore e la risposta dell’intervistato c’è sempre un piccolo iato, una frazione infinitesimale di sospensione: condizione indispensabile al germogliare della parola sapiente. Ed è questo il suo segreto, il suo fascino. Di solito invece gli intervistati si comportano così: alla domanda scattano come molle e si sperdono in diluvi di parole.
Se volessimo, per la simpatia che c’ispira, tentare l’impresa di arrivare al cuore della sua personalità, di là e contro i facili stereotipi, sarebbe difficile, quasi impossibile, separare il professionista dall’uomo: tanto l’uno è compenetrato nell’altro.
Due le qualità prevalenti. Da un lato la ricerca, lo studio incessante di schemi, figure, tattiche, che potrebbe far pensare ad un ‘intellettuale’ sostanzialmente arido e monomaniaco. Dall’altro, a contrappunto, l’apertura fantasiosa, l’inseguimento di un sogno, di mete ideali. Insomma un connubio armonico tra geometrie, rigorose nella loro flessibilità, ed estri che vengono secondati.
Questo educatore, che del calcio e degli uomini, pare conoscere tutti i segreti e tutta la potenzialità, e che fin da giovane si è inoltrato nei campi mai sufficientemente arati dell’utopia calcistica, ha vinto ben poco in carriera. Per questo non è raro che venga sbeffeggiato da certi dappoco o anzi danulla. Che, imbottiti fino all’osso dall’aria greve che si respira in giro, vedono tutto in funzione di immediato profitto, e commiserano schifati il perdente, lo sconfitto. Costoro non sanno che farsene di questo sognatore, di questo hidalgo senza macchia e senza paura; di questo controcorrente che, col suo operare silenzioso, disturba – e non poco – il conformismo sociale. Un uomo capace peraltro di ricucire come un ragno una tela strappata, e con volontà di granito riportarsi a galla mediante applicazione ed esercizio strenuo. Che sa l’arte di rialzarsi dalle cadute e guardare con fiducia lontano. Gli è che Zdenek Zeman crede alla bellezza: il suo calcio, vocato all’attacco, deve dare emozioni, espandere gioia: e non solo ai sostenitori. Si dovrebbe essere grati a questo caparbio sognatore perché – implicitamente s’intende, e non con clangore di trombe e tromboni – ci dà un esempio (alto) di professionalità e di umanità. E aggiungeremmo, se vogliamo essere sinceri fino in fondo, di bontà: una bontà rintanata, quasi occultata per pudore nella faccia a dir poco impenetrabile di rugoso pellerossa, se non fosse per quegli strali, quei fulgori ironici e sornioni che scattano a intermittenza dagli occhi a fessura. Bene. Questo ‘roccioso’ uomo, in un’intervista di tanti anni fa a una televisione locale, rivelò una piega insospettata (ma sarà forse più vero dire sospettabilissima) del suo essere. Alla domanda se avesse, alla fine, qualche desiderio da esprimere: «Che mio padre – disse con voce incrinata e umidi occhi – possa riacquistare un po’ di salute». Quella commozione, bucando lo schermo, disse urbi et orbi di che pasta fosse / sia fatto Zdenek Zeman.
Domenico Franciò

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