mercoledì 6 gennaio 2016

Cane e padrone



Un giovanissimo cane Schnauzer, della più pura razza canina, quella così cara al Führer tedesco come prototipo di razza, andava spegnendosi. Una cosa che ti strappa il cuore dal petto.
Pensate. Un animale, vivo di una vita strabocchevole, un segno della vita quando essa appare in tutto il suo fulgore, in tutta la sua lussureggiante, prepotente vitalità, nel suo compiuto splendore. Questo cane – bello, magnifico, che tutti non gli negherebbero un complimento, un’ammirazione, un gesto affettuoso – questo cane ischeletrito dalla micidiale leishmaniosi, ridotto a una misera larva, a quattr’ossa vaganti e scollate, vive per una cosa sola: giocare. E tu, che non sei un perfido, un miserabile; se sei, sia pure indegnamente, uno che appartiene alla “razza” che dicesi umana; tu devi, dico devi, prestarti a giocare: con lui e come vuole lui, come si fa con qualunque cane del mondo. Tu gli tiri il legnetto e il pelleossa, che pare se lo siano mangiato i cani tanto appare spolpato – come qui pertinentemente si potrebbe dire – ha un solo desiderio: andare ad afferrarlo. E tu non devi fare altro che assecondarlo nella sua feroce volontà, vale a dire fargli gustare a sazietà, a scialo, l’ultimo piacere che la vita gli offre: giocare col (presunto) amico, del cui affetto lui ha sempre bisogno e del quale mai ha dubitato e dubiterà. Diavolo d’un cane! È mezzo morto, è più che morto, e non vuole smetterla, una volta per tutte, di tirare le cuoia, farla finita insomma con questa esistenza che altro non gli dà e gli ha dato come compagno e padrone se non quel bipede, cialtrone d’animo e di corpo. Eh, sì, diavolo di un cane che non sei altro: non ti sei capacitato, e mai forse ti capaciterai che lo strano individuo è in realtà il più feroce degli esseri viventi. Perché tu non ti sogneresti mai di portare guerra ai confratelli, e, se e quando lo facessi, sarebbe sempre per difendere, o compiacere, lo squallido essere che di te fa uso, nei casi migliori, per scienza e conoscenza (vedi la più delle volte disutile, impietosa, brutale, barbara pratica della vivisezione). Tu non fai guerra, dicevo, ai tuoi confratelli, fratello mio triste, dal tenero candore che sempre imperla muso e occhi. A te chiedo perdono. Lo faccio a nome – se mi è consentito – della stupidissima congrega che una cosa sola sa fare, in una sola cosa riesce bene: distruggere se stessa.
Quanto a te, amico mio dolcissimo, dimidium animae meae, abbiti, prenditi tutto il mio affetto e la mia eterna gratitudine. E accetta il ripullulante rimorso per quanto ti si è fatto soffrire. Pace in eterno, amico. Possa tu un giorno risorgere al cielo cui anche noi indegnamente aspiriamo.
Domenico Franciò

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