Dall’autobiografia
di Romolo Valli traggo uno spunto interessante. Con riguardo a un certo cinema
disimpegnato, d’intrattenimento, il
grande attore lo stronca con un semplice aggettivo: digestivo. Iunctura sintattica che fa affiorare, per semplice analogia,
e non per improbabili acrobatismi mentali, una lontana affermazione polemica
per la quale certa storiografia greca, poco aderente alla realtà dalla quale
ama astrarsi, e tutta incline al fantastico e al fantasioso, era bollata come una
storiografia “di pancia”, vale a dire edonistica.
Sono convinto che
quell’aggettivo possa legittimamente essere traslato in campo letterario, e con
tonalità tutt’altro che blande e ammorbidenti. Una letteratura digestiva – e tranquillamente
si potrebbe aggiungere di consumo – è letteratura superficiale, di scarso o
nullo impegno etico – e dico etico nel senso ampio e virtuoso della promozione
a bellezza. Parola questa strombazzata, dall’universo mediatico, come capacità
di elargire vita, respiro, conforto. E così dovrebbe essere, ma così non è
appunto perché s’intruppa con quella genia di parole modaiole lasciate al
guasto e al degrado come sulla sabbia gusci secchi di chiocciole e molluschi –.
Essa è approntata appunto per una digestione facile e rapida. Non rompe, e neanche
scuote, incancrenite abitudini, non getta sassi nello stagno; tira e fa tirare
a campare, giocondamente e senza pensieri, in beotica beatitudine. Per questo è
quanto mai necessaria una parola nuova, fresca, viva, che sappia urtare,
offendere il così detto senso comune. Una parola inquieta che renda coscienti
che non si vive di solo pane: che l’uomo ha esigenze, bisogni che vanno ben al
di là di quelli primordiali e primissimi (e, comunque, preliminarmente da soddisfare).
Aver sempre presente, mai scordare il solenne monito dantesco del «fatti non
foste a viver come bruti», strappandosi a quella sonnolenza che avvilisce e
sconforta.
Domenico
Franciò
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