Si può affermare con un certo margine di
sicurezza, e senza timore di incorrere nell’ira degli dei, che la nota
dominante di questa silloge di Vincenzo Leotta sia un flusso d’amore
bidirezionale. (Non certo casuale il titolo “La direzione”). Flusso d’amore ininterrotto
dalla bimba Irene ai cari, dai cari ad Irene; vale a dire dal centro, che
indubitabilmente è Irene, alla periferia, che sono i suoi familiari, in un
virtuoso vortice incessante. Il vortice entro cui vagano, rapite da tempesta
che mai non cessa, le anime sbigottite e vaganti di Paolo e Francesca.
Quanto al sottotitolo “Suite per Irene”
non è che i dizionari siano prodighi al riguardo. Dicono che si tratta di un
termine musicale, ed esattamente: «Composizione strumentale di origine barocca
per danza in più tempi, ove si alternano pezzi in rapido movimento a pezzi a
movimento lento».
Tocca perciò al critico, o comunque allo
studioso, cercare di tirar fuori, snidare l’intenzionalità semantica affidata
al termine. Operazione che va fatta sempre, crediamo, ἀπάλαις χερσίν, con mani
delicate, ossia col tatto e la levità di tocco che la materia e la circostanza richiedono.
A me pare, stando anche all’etimologia
che si lega chiaramente a ‘seguire’, che il poeta abbia pensato alla sua
silloge come a qualcosa di compatto, ad una serie di tessere incastranti l’una nell’altra
per un disegno nitido e coerente.
L’esame, analiticamente e concretamente
condotto sulle diciotto poesie, si presta ad avvalorare questa impressione. Da
ciascuna di esse – ma senza un ordine prestabilito né tantomeno sistemico, o
sistematico, che, francamente, confessiamolo, non è nelle nostre corde, e ci
toglierebbe respiro e libertà di movimento, preleviamo elementi puntuali, che confortino
la tesi intravista.
Prendiamo 18. Esso compendia (ab uno disce omnes) la singolarità
poetica della raccolta: i versi iniziali della felicissima battuta autoironica
(«Venuta l’ora, il più tardi però») s’innestano, con felicità e
leggerezza, sulla espressione di candido affetto per la «dolce nipotina»,
facendo da supporto, in questo, la fede non certo ordinaria del nonno-poeta.
È ufficio e compito del nitore formale
contenere dentro giusti argini una straripante tenerezza che altrimenti non si
vede come poter fermare. Esaminiamo la prima poesia.
Chi non sa che Marzo è ‘pazzariello’, il
mese buono per tutte le sorprese? Prove di partenza: pronta la valigia,
timbrato il biglietto di sola andata, la mente e l’animo disposti all’altrove (nox una dormienda), quell’altrove
misterioso che – si sa – non ammette ritorno né, aggiungiamo, moviola o replay
(unde nullus numquam redit). Non
aveva fatto però i conti il Nostro con l’improvvisa epifania della paciosa
bimba Irene, che svoglia ad iniziare quel viaggio. Che altro fare allora quando
accanto c’è una creaturina indifesa e inerme, se non sostenerla, anche se si è
«debole», «infermo» di suo? La ‘rivoluzione’ diventa tutta una preziosa
occasione per un osservare amoroso. La figlia felice, che dà il latte alla
nipotina felice, è situata in un quadretto idillico, tenero e beato, che
scioglie il sangue facendo rifluire la vita e disponendo a nuovi sogni, a
«nuove follie» (2). La bimba sa astrarsi dal circostante per uno spazio tutto
suo «le mille miglia distante», e dunque inattingibile, più che refrattaria,
all’abbraccio. Il tema del desiderio d’amore circola come un fiume carsico, ma
non è certo un fatto sporadico o occasionale (7).
In 15, l’osservazione analitica di ogni
particolare del comportamento neonatale raggiunge l’apice. La citazione deve essere
più corposa: «Non parla ma non c’è parte del corpo / quieta: gonfia gli occhi
le gote / dimena le braccia le mani / ruota le testa a centottanta gradi /
punta i piedi inarca la schiena… / Sembra un torello innanzi alla muleta». Come
si vede, il ritmo si fa incalzante, dionisiaco: c’è come una ebbrezza, tra
ammirata e amorosa, che penetra fino al midollo. Pura icasticità, l’iconico che
prevale? La domanda è oziosa, non ha motivo di essere posta, in quanto resa
vana dalla finezza finale: il pianto della bambina taglia – per così dire e
anche per restare in tema – la testa al toro.
In 8, la bimba Irene si esibisce
voluttuosamente nella lallatio: parla
parole che sembrano prive di senso – e lo sono davvero ad occhio razionale ed
alfabetizzato –. In realtà sono squisite e brillanti esercitazioni musicali su
spartiti che tutti ignorano e che solo lei conosce a fondo: a sei mesi, dunque,
la nostra Irene non trova di meglio che lallare
e irridere chi tenta di capire le cose, usando di un unico codice
interpretativo. Quasi d’obbligo la citazione: «Ma con gli occhi non trovi chi
la superi: / – se ti guarda, t’incute soggezione / – se piange, un nodo ti
serra la gola / – se sorride, ti credi in paradiso». Dalla soggezione (la bimba
soggioga col suo volto serio e assorto) al nodo in gola, al sorriso
paradisiaco, il passo è breve, e finalmente appagante.
Tra rabbia fin troppo ottimistica (Gott
mit uns) e assenza di nemici (ne siamo proprio certi e sicuri?) e il fastidio
per la chemio, ecco l’ἀπροσδόκητον, l’inatteso, ciò che ti ridà il sapore, il
gusto sottrattoti al corpo in disarmo. Situazione nuova che potremmo
etichettare ‘ribaltamento della situazione’. Anche qui (13), un dettaglio
osservato con spirito d’amore (vv. 8-9: «succhiando il piedino con le labbra
come fosse il seno della mamma»). L’immagine tratta da un salmo amoroso,
significante l’estremo abbandono della creatura umana nelle braccia
misericordiose di Dio.
In 10, trovo la spiegazione della mamma
della bimba più che giusta e persuasiva. Lo splendore di bimba Irene aiuta il
quasi-cieco nonno a ritrovarsi, ossia a vedere dentro il buio che sgomenta.
Il fulgore della bimba ha la meglio, la
spunta sui chiari, inoppugnabili segnali di degrado (entropia) e di
disfacimento che sono l’alloro spento, deprivato del suo verde manto, per
solito lucido e denso. E poi, quel sole così stracco e stralunato, dall’alone
che non promette nulla di buono.
Domenico Franciò
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